Qualche mugugno non manca, in nome della diversità antropologica napoletana basata sul trinomio di valori non negoziabili: “squadra-città-radici”
I Vannacci del tifo azzurro che odiano lo juventino Conte
Habemus Conte (Antonio, non Giuseppe) e il salvifico annuncio diventa solenne, se non epocale, perché mette insieme, una tantum, élite e plebe, repubblicani e sanfedisti, riformisti e rivoluzionari e così via. Un po’ come quando al Festival di Sanremo il cantante che vince col voto popolare si aggiudica il premio della critica.
Epperò qualche mugugno non manca, non sappiamo se rappresentativo di tanti o pochi tifosi. Un fenomeno di dissenso ideologico e grottesco cui mi era già capitato di assistere qualche anno fa dove lavoro, nella redazione romana del Fatto, quando un collega interista mi disse che con l’arrivo di Conte in nerazzurro avrebbe smesso temporaneamente di tifare per la sua squadra. E neppure il successivo scudetto conquistato dall’Inter riuscì a mitigare questa avversione per Conte, elevato a imperitura icona dell’odiato juventinismo.
Ora non sappiamo se gli anticontiani in azzurro faranno lo sciopero del tifo. In ogni caso non sono felici del nuovo allenatore e lo fanno in nome dell’immancabile diversità antropologica napoletana che nel calcio si basa su un trinomio di valori non negoziabili: “squadra-città-radici” (Vittorio Zambardino sul Corriere del Mezzogiorno), da leggere tutto d’un fiato senza pause. Insomma, il no a Conte è figlio della scontata paccottiglia della napoletaneria, quella che avrebbe volentieri fatto a meno dei film di Troisi e dei libri di La Capria e avrebbe voluto amare Sarri da qui all’eternità. Un fronte identitario contro la “juventinizzazione” (ancora), che non vuole la vittoria a tutti i costi e che l’Aurelio populista qualche mese fa riassunse così per giustificare i letali errori di questa stagione catastrofica: “Napoli vorrebbe vincere lo scudetto ogni anno, però secondo me vince già con lo scudetto della supremazia dell’essere napoletani da secoli”. Appunto.
Questo neo-populismo anticontiano, per fare un esempio attualissimo, ha un suo epigono politico nel famigerato generale Roberto Vannacci, pensatore del mondo al contrario e candidato salviniano della Lega alle elezioni europee. Sì, i napoletani che si scagliano contro l’ingaggio di Conte sono i novelli Vannacci del tifo azzurro. Anche perché la loro rivendicazione dei simboli, del cuore e della cultura in realtà si basa su unico e tenace sentimento: l’odio. E così per risolvere l’equazione Vannacci-anticontiani basta sostituire i migranti o i gay con i bianconeri juventini e pure con gli arbitri (perché non bisogna dimenticare l’eterno vittimismo piagnone, meritevole finanche di dotti convegni accademici). Un sentimento, quello dell’odio, che in questi lustri ha investito anche coloro che hanno messo in pericolo la napoletaneria. Rafa Benitez, per esempio, che appena arrivò capì tutto e sentenziò: “Napoli vincerà quando smetterà di pensarsi diversa dalle altre”. Oppure Carlo Ancelotti, tuttora denigrato, incredibile a dirsi, con le accuse di culismo, dopo che lo stesso Aurelio, sempre in versione sovranista, qualche anno fa disse una cosa che suonava così: “Napoli non faceva per lui”. La diversità, appunto.
Ma l’odio dei Vannacci che coltivano una visione sentimentale del calcio tutta cuore, e aliena dalla realtà, rivela una fallace e clamorosa contraddizione nel punto d’arrivo dell’invettiva anticontiana. Avrebbero preferito, i cultori della diversità napoletana, il piemontese Gian Piero Gasperini, sospettato in un recente passato di qualche gesto anti-terrone ma assolto in quanto non ha mai vinto nulla, almeno sino al 22 maggio scorso. Riassumendo: meglio un allenatore antipatico e senza vittorie in nome della diversità, che uno antipatico, juventino e vincente. Che figura da Uroboro. Cioè, del classico serpente che si mangia la coda.