A El Mundo: «Era sempre l’ultimo ad andarsene dal Camp Nou. Oggi gli allenatori sono troppo attaccati agli schemi, ma ci sono tante strade che portano a Roma».
Ronald Koeman ha parlato, in un’intervista a El Mundo, del suo periodo al Barcellona e di Cruyff.
L’intervista a Koeman
Tre anni fa, quando ha lasciato Barcellona, ha detto che era “una liberazione”. Ora è l’allenatore dei Paesi Bassi. Come ti senti a tornare in Nazionale?
«La prima cosa e anche più importante è stata la grande differenza dell’essere un allenatore di club e un allenatore di una nazionale. È sempre calcio, ma non quotidiano. In questo senso è totalmente diverso, hai più tempo libero, puoi fare altre cose… Non sei sotto pressione ogni giorno, che è la differenza tra quando stavo al Barcellona e ora. Alla mia età, con la mia esperienza, è il miglior impiego che posso avere.»
Il “Cruyffismo” l’hai vissuto sia a Barcellona che nell’Olanda. Come lo definiresti e come hai affrontato la pressione di quello stile di gioco nel club e in nazionale?
«Il “cruyffismo” è un modo di attaccare. Ma non attaccare con uno schema preciso. Quando giocavo nel Barça, con Cruyff come allenatore, a volte giocavamo senza un vero centravanti, Laudrup era un falso nove, avevamo due ali, a volte l’ala era un centrocampista come Eusebio. Questo si intende come modo di attaccare. In Olanda si parla troppo di sistemi, forse giocare con 5 dietro è più offensivo che giocare con 4. Ma ci sono tante strade che portano a Roma. A volte vogliamo scovare sistemi di gioco del passato, ma il calcio è cambiato.»
Cosa ha significato Cruyff per te?
«E’ stata la persona più importante della mia carriera calcistica. L’ho avuto come allenatore all’Ajax, mi ha poi voluto a Barcellona, era il mio mentore. Ci siamo frequentati anche con le nostre famiglia, abbiamo trascorso i compleanni dei nostri figli insieme… Era molto importante per me, dentro e fuori dal campo. Da allenatore era sempre molto attento ai dettagli. E poi era sempre l’ultimo ad andarsene dal Camp Nou, tornava a casa e faceva il padre di famiglia. Per lui in quel momento non esisteva più il calcio».
Psicologicamente, allenare il Barça è stata la cosa più difficile della tua carriera?
«Penso di sì, ma perché il Barça è il mio club del cuore. Mi sono divertito come calciatore lì, ho tanti amici in città, allenare il Barcellona è stato uno dei sogni realizzati della mia vita. Ma questo ha reso tutto più difficile e stressante. Da olandese lì c’è tanta pressione; se perdevamo mi criticavano molto. Ma sono sicuro mi ricorderanno come un buon calciatore, questa sarà sempre l’eredità che mi porterò dietro in Spagna».