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La crisi del calcio italiano è culturale: la vita non è solo milioni, veline, procuratori e scommesse (Cazzullo)

Sul Corsera. Lo sport italiano non è in crisi. Non c’è un solo personaggio da raccontare. Serve anche leggere un libro, guardare un film

La crisi del calcio italiano è culturale: la vita non è solo milioni, veline, procuratori e scommesse (Cazzullo)
Italy's players react at the end of the UEFA Euro 2024 round of 16 football match between Switzerland and Italy at the Olympiastadion Berlin in Berlin on June 29, 2024. (Photo by Odd ANDERSEN / AFP)

La crisi del calcio italiano è morale e culturale: la vita non è solo milioni, veline, procuratori e scommesse. Lo scrive Aldo Cazzullo nella sua rubriche delle lettere per il Corriere della Sera.

Lo sport italiano non è in crisi. L’atletica azzurra ha dominato gli Europei di Roma e può fare molto bene ai Giochi di Parigi, così come il nuoto. Pallavolo e pallanuoto sono da medaglia olimpica. Abbiamo ottime sciatrici, ottime fiorettiste, ottimi tennisti. Molti sport attirano giovani disposti a sacrificarsi, a faticare, a competere, a fare squadra. Perché allora non il calcio, il nostro sport nazionale? I ragazzi non giocano più a pallone per strada, è vero. Ma non è tutto lì.

È abbastanza incredibile, ad esempio, che nel calcio non sia ancora emerso un fuoriclasse tra i milioni di nuovi italiani che innervano altri sport, si pensi al campione olimpico Marcell Jacobs e al fenomeno che avrà la sua consacrazione a Parigi, Yeman Crippa. Ma la cosa più grave è che le poche squadre italiane che hanno fatto bene nelle coppe europee in questi anni, da ultima l’atalanta, sono composte quasi esclusivamente da stranieri.

A mia memoria, non ricordo la Nazionale giocare male come ieri. Non è certo la prima spedizione fallimentare del calcio azzurro. Da cronista, oltre alla splendida vittoria del 2006 (nello stesso stadio di ieri), mi è capitato di raccontarne tre: Corea 2002, Sud Africa 2010, Brasile 2014. Ma erano comunque squadre interessanti: in Corea eravamo fortissimi, c’erano Maldini, Nesta, Vieri, Totti, Del Piero; e anche le altre volte c’erano comunque personaggi di spessore da raccontare.

Nel calcio italiano (e non) conta anche il fattore umano

In questa squadra chi c’è? Non è solo un fatto tecnico (l’unico giocatore di sicura classe internazionale è il portiere). C’è anche il fattore umano. Nello sport moderno, o sei baciato dagli dei come Messi, oppure per diventare non dico un campione ma un atleta di valore devi costruirti anche come uomo: carattere, coraggio, forza morale; vivere con gli occhi aperti e le orecchie dritte, imparare le lingue straniere, aggiornarti sul tuo sport, forse addirittura leggere un libro. Non bastano tatuaggi, milioni, procuratori, veline, auto sportive e scommesse on line (se Fagioli fosse arrivato pronto, se in mezzo ci fosse stato Tonali…).

Nella sua bella autobiografia, «Più dritti che rovesci», Adriano Panatta racconta i suoi incontri con Mina, con Paolo Villaggio, con Ugo Tognazzi, gli articoli che leggeva, i film che guardava, e aggiunge che tutto questo arricchiva il suo tennis, il suo modo di stare in campo, la sua maniera di affrontare gli avversari. Ragazzi, un consiglio: almeno il libro di Panatta, leggetevelo. (E in ogni caso, correte di più. Scriveva Gianni Brera — lo so che non sapete chi è —: «Puoi essere anche il Gesù Cristo del calcio sulla terra, ma se trovi un brocco disposto a correre più di te, non puoi giocare»).

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