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Spalletti ci sta provando, ovviamente a modo suo

E’ più un allenatore che un selezionatore ma Mancini ha vinto dando una identità alla squadra. Spalletti è una persona complessa ma coerente

Spalletti ci sta provando, ovviamente a modo suo
Italy's head coach Luciano Spalletti gestures during the UEFA Euro 2024 Group B football match between Italy and Albania at the BVB Stadion in Dortmund on June 15, 2024. (Photo by INA FASSBENDER / AFP)

Spalletti in difficoltà

Luciano Spalletti, si sa, è un grandissimo allenatore. Ma è anche una persona difficile. E quando una persona del genere ha dei problemi, come dire, diventa ancora più difficile. Nel suo caso, poi, alcuni problemi non dipendono direttamente da lui: l’Italia è una Nazionale che molti definiscono scarsa, ma sarebbe più corretto dire in transizione; c’è un solo fuoriclasse generazionale (ovviamene parliamo di Donnarumma), non ci sono tanti giocatori forti e davvero affermati a livello internazionale (forse Barella, Chiesa e Jorginho sono gli unici che meritano questo titolo) e poi c’è un gruppo di calciatori che hanno buone o anche ottime prospettive, ma che naturalmente non offrono ancora delle reali garanzie ai massimi livelli. Parliamo di Calafiori, naturalmente. E poi di Bastoni, Frattesi, Scamacca, Dimarco – a cui andrebbero aggiunti gli assenti Scalvini, Tonali, Udogie.

Il vero problema di Spalletti, però, non è tanto la qualità complessiva della rosa che ha a disposizione. Non solo, quantomeno. È che la sua Italia, almeno a questi Europei, è una Nazionale – non una squadra, e già questa è una differenza significativa – composta in maniera incoerente. Non si presta a nessun sistema di gioco “pre-impostato”. Per essere chiari, facciamo un confronto con il passato recente: quella affidata a Spalletti non è come la Nazionale di Mancini, che aveva un bel po’ di elementi – Bonucci, Spinazzola, Verratti, Jorginho, Barella, Insigne, Berardi – perfettamente spendibili in un calcio di possesso, di riaggressione alta; quella di Spalletti è una Nazionale in cui, per dirla brutalmente, Calafiori e Frattesi parlano due lingue molto diverse. Esattamente come Pellegrini e Retegui, come Dimarco e Chiesa. E potremmo andare avanti a lungo.

Non è una difesa d’ufficio

Attenzione: non stiamo difendendo Spalletti. O meglio: non stiamo criticando la Nazionale per togliere delle colpe del commissario tecnico. Che, in quanto tale, è stato scelto – e viene stipendiato – proprio per assemblare la sua squadra, per far coesistere giocatori anche diversi tra loro. Non a caso, chi siede sulla panchina di una Nazionale viene utilizzato anche il job title di “selezionatore”. Perché i suoi compiti sono diversi rispetto a quelli di un allenatore di club, e Spalletti deve rendersene conto. Il problema, però, è che il suo modo di intendere il calcio è davvero troppo lontano da quello di un ct: Spalletti è sempre stato un formidabile lavoratore di campo, un tattico ossessivo per cui ogni cambiamento – di modulo, di formazione, naturalmente di mercato – determina uno stravolgimento totale del suo approccio, del suo sistema.

Il punto, come in ogni cosa della vita, sta nel tempo a disposizione. Nel senso: un allenatore di club lavora con la sua squadra tutti i giorni, e per molti mesi. Un commissario tecnico non può farlo, o comunque può farlo solo per periodi molto limitati. In cui è difficile avere un impatto vero. Se a questo ostacolo aggiungiamo il discorso fatto sopra – quello sulle differenze tecnico-tattiche tra i vari giocatori dell’Italia – viene fuori un quadro davvero difficile, per Spalletti. Che, direte voi, avrebbe anche potuto rifiutare l’offerta della Figc e aspettare un progetto – magari con un club – più coerente con i suoi metodi, con le sue idee. Per carità, è vero. Ma quale allenatore di 65 anni avrebbe avuto il coraggio di dire no a un’offerta così prestigiosa? A un incarico che, di fatto, è il coronamento di una grande carriera, per altro subito dopo la vittoria di uno scudetto storico?

Il guru, l’opportunismo, la storia

La verità è che Spalletti – come da sua storica abitudine – sta anche attuando una strategia comunicativa a dir poco complessa. Il suo approccio da guru fa fatica a essere recepito e metabolizzato, a maggior ragione visti i risultati non proprio esaltanti della sua Italia. Leggendo con attenzione alcune delle sue parole, però, arriva la conferma di quanto detto finora: i continui riferimenti alla «mancanza di coraggio» e agli «errori tecnici» dei suoi giocatori dimostrano che c’è una distanza ampia, difficile da colmare, tra i desiderata del ct e le prestazioni dei suoi giocatori. Che, per quanto allenati, è come se facessero fatica a interpretare le sue richieste.

Il cortocircuito, per i critici, avviene proprio in questo punto della filiera. In quanto commissario tecnico e non allenatore, Spalletti dovrebbe essere più opportunista. Dovrebbe, cioè, ascoltare di più i segnali che arrivano dalla squadra – che contro la Croazia si è espressa meglio il 3-5-2 e poi ha trovato il pareggio col 3-3-4 disegnato nel finale – e dallo spogliatoio, dovrebbe in qualche modo adattarsi al contesto e non cercare di determinarlo, magari puntando di più sulla ricerca dell’equilibrio in chiave difensiva. Come hanno fatto tutti i grandi commissari tecnici azzurri prima di lui.

La storia recente del calcio, però, va in direzioni diverse. E non c’è bisogno di andare tanto lontano per trovare delle conferme: l’Italia di Mancini, di cui abbiamo già parlato, ha vinto – non ha semplicemente fatto bene: ha vinto – non appena il ct l’ha trasformata in una squadra che imponesse il suo calcio, la sua identità; l’altro torneo giocato in modo convincente negli ultimi dieci anni, Euro 2016, fu affrontato a partire da idee diverse ma con un approccio simile: Antonio Conte, infatti, sacrificò diversi giocatori di qualità – Lorenzo Insigne su tutti – pur di portare avanti il suo modello. Il suo 3-5-2, il suo calcio aggressivo e ipercinetico, i suoi giochi offensivi mandati a memoria come le battute di un copione teatrale.

Le prospettive

Spalletti non ha avuto tempo di creare qualcosa del genere. È subentrato in corsa, ha dovuto conquistare la qualificazione all’ultima giornata e quattro mesi dopo, in pratica, era già agli Europei. In una situazione di questo tipo, però, ha fatto – e sta continuando a fare – delle scelte di prospettiva. Basti pensare a Calafiori, che magari è stato “promosso” titolare solo dopo il forfait di Acerbi, ma intanto è lì. Ed è il miglior giocatore dell’Italia a Euro 2024, non solo per l’assist servito a Zaccagni. Basti pensare a Scalvini schierato titolare a Wembley, oppure alla volontà di insistere su Scamacca.

E allora forse è giusto così. È giusto pensare a costruire la Nazionale del domani (quella che dovrà qualificarsi ai Mondiali del 2026) già da oggi. Anche se siamo agli Europei. È giusto provare a giocare un calcio sempre ambizioso e mai difensivo, è giusto far fare esperienza sul campo ai vari Calafiori e Scamacca, Scalvini e Bastoni. Senza castrarli, senza costringerli a fare un tipo di gioco che non gli appartiene.

D’altronde l’opinione trasversale è che questa Nazionale sia scarsa, è che non possa fare un grande percorso agli Europei, figurarsi vincere o arrivare in fondo. Quindi tanto vale iniziare a costruire il futuro, non solo immaginarlo diverso dal presente. Da questo punto di vista, Spalletti sta provando a fare qualcosa. Ma a modo suo. Come tutti i grandissimi allenatori, come tutte le persone difficili.

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