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Storia tattica di Antonio Conte: un dogmatico sempre in evoluzione

È un tecnico apparentemente fermo nelle sue idee. Ma non è così e le sue squadre lo testimoniano. È un fenomenale allenatore di campo

Storia tattica di Antonio Conte: un dogmatico sempre in evoluzione
Db Crotone 01/05/2021 - campionato di serie A / Crotone-Inter / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Antonio Conte

Allenatore dogmatico

Parleremo ancora a lungo di Antonio Conte al Napoli, di tutti i possibili risvolti economici e politici di questa operazione. Lo faremo su questo sito, lo faranno tutti gli altri medium che raccontano il Napoli e tutte le testate nazionali. È inevitabile, dopotutto siamo di fronte a un vero e proprio botto di mercato, a un colpo a effetto che potrebbe modificare gli equilibri competitivi della Serie A – perché è questo che fanno i grandi allenatori, piaccia o meno. Il ritorno di Conte in Italia, poi, è stata e sarà l’occasione per riavvolgere il nastro del passato, per rivivere e rivalutare il lavoro, le idee, i concetti e – perché no? – anche i difetti dello stesso Conte. Che, a scanso di equivoci, deve essere considerato uno dei tecnici più influenti prodotti dal calcio italiano negli ultimi vent’anni.

Proprio in virtù di tutto questo, è giusto presentare il Conte-tattico andando oltre i luoghi comuni, oltre le etichette. O, quantomeno, provando a raccontare la sua carriera in panchina con un approccio meno superficiale. Perché è vero che si tratta di un allenatore dogmatico, di un cultore della difesa a tre, di un tecnico che apprezza – e quindi fa acquistare – dei giocatori di un certo tipo, più o meno sempre gli stessi. Ma questi aspetti non possono – non devono – far passare in secondo piano il suo lavoro di aggiornamento, i cambiamenti che ha apportato al gioco delle sue squadre e attraverso il gioco delle sue squadre, la sua abilità nel valorizzare calciatori che sembravano destinati all’oblio. Tutte abilità puramente di campo, che vanno al di là dei discorsi – anche questi reali – sul suo carisma, sulle sue capacità motivazionali, sul suo impatto emotivo.

Dall’elasticità al dogmatismo

Come detto in precedenza, è inevitabile inserire Conte nella lista degli allenatori dogmatici. Nel senso che dobbiamo considerarlo, per definizione, come un tattico che parte sempre dagli stessi concetti per disegnare e poi costruire le sue squadre. Ma non è sempre stato così. Anzi, si può dire l’esatto contrario: il suo dogmatismo è l’approdo finale di un lungo percorso di formazione. In pratica è come se Conte avesse sperimentato al punto da aver trovato la formula perfetta per concretare le sue idee di calcio.

Per capire cosa intendiamo, basta andare con la mente al quinquennio 2007 –> 2011 : ad Arezzo, a Bari e a Siena, così come nel suo brevissimo passaggio sulla panchina dell’Atalanta, Conte ha sempre utilizzato il sistema 4-2-4. Che, naturalmente, è una formula più estrema – e quindi giornalisticamente più accattivante – per descrivere un 4-4-2 classico in cui gli esterni offensivi sono particolarmente offensivi. È così che sono arrivati i primi grandi successi della carriera di Conte: le promozioni in Serie A ottenute con il Bari (2008/09) e con il Siena (2010/11). In entrambe le stagioni, le squadre di Conte risultarono anche prime in classifica per gol segnati.

Ancora oggi, il Bari di Conte viene ricordato come una delle squadre più divertenti che abbiano mai vinto la Serie B

Come si vede chiaramente da questo video, il gioco del primo Conte si fondava sull’idea di occupare il più possibile il fronte offensivo, di attaccare l’area di rigore con accezione quasi militare, cioè col maggior numero possibile di invasori. Questo assalto, per altro, doveva avvenire sia in ampiezza che attraverso lunghi lanci in profondità, in modo da determinare per forza degli scompensi nelle linee avversarie. La presenza di due difensori e di due centrocampisti centrali piuttosto statici era una sorta di garanzia di equilibrio in transizione negativa, ma al tempo stesso era inevitabile che tutti i giocatori – soprattutto i quattro laterali, i due terzini e le due ali – dovessero correre tantissimo per sostenere un sistema così spregiudicato. Così avanguardista.

Alla Juventus

Col tempo ce ne siamo dimenticati un po’ tutti, d’altronde è stato lo stesso Conte a seguire altre strade e ad appropriasene, ma anche la primissima Juventus di Conte giocava col 4-2-4. Con Pirlo e Marchisio/Vidal davanti alla difesa, con Pepe e Giaccherini esterni offensivi. Con Vucinic e Matri in avanti. E con Lichtsteiner terzino d’assalto, a cui Conte insegnò ad aggredire l’area – soprattutto sui lanci di Pirlo. In poche settimane, però, il tecnico bianconero ribaltò completamente lo scenario: prima varò un 4-3-3, così da non dover rinunciare a nessuno tra Pirlo, Vidal e Marchisio. E poi proprio in occasione di una sfida contro il Napoli, allora sulla panchina azzurra c’era Walter Mazzarri, disegnò per la prima volta la difesa a tre con Barzagli, Bonucci e Chiellini.

Ecco, nella storia tattica di Antonio Conte la gara Napoli-Juventus 3-3 del 29 novembre 2011 è uno spartiacque decisivo. Nel senso che esiste un prima e un dopo quella partita. Ma chi riduce tutto all’essenziale, cioè a una pura e semplice questione di modulo, pecca di superficialità: la scelta di passare al 3-5-2 va fatta risalire alla possibilità di schierare, tutti contemporaneamente, i sei giocatori di movimento più forti di quella Juventus (Barzagli, Bonucci, Chiellini, Pirlo, Vidal e Marchisio: metteteli nell’ordine che preferite); ma fu anche un tentativo – riuscitissimo – per avere maggior controllo delle partite, grazie a una difesa più solida ma anche attraverso un possesso palla più insistito, più sofisticato. Anche se inevitabilmente meno diretto, meno verticale.

La prima partita di Antonio Conte al Maradona fu San Paolo, ovviamente da allenatore

Insomma, Conte si è convertito – definitivamente – alla difesa a tre in modo da poter applicare i principi di gioco che ama. O che ha scoperto di amare. Allo stesso tempo non ha rinunciato a giocare un calcio d’attacco, tutt’altro. Quando in seguito gli è stato chiesto di spiegare come quella metamorfosi, ne ha sempre fatto una questione puramente offensiva: «Col 4-2-4 attaccavo con quattro giocatori e gli altri si preoccupavano di difendere. Col 3-5-2, invece, attacco con cinque e a volte anche con sei giocatori», disse in un’intervista.

Nelle sue tre stagioni alla Juventus, Conte ha continuato a lavorare sul 3-5-2 in modo ossessivo. Grazie alla coppia Tévez-Llorente ha messo a punto dei sincronismi offensivi praticamente perfetti. Con l’inserimento progressivo di Pogba ha creato un centrocampo ad altissimo potenziale tecnico. E ovviamente ha elevato il rendimento di Barzagli e Bonucci fino a livelli assoluti, dandogli il contesto giusto per far fruttare le loro qualità – e per nascondere i loro difetti, primo tra tutti una chiara mancanza di rapidità.

Un allenatore statico?

Il 3-5-2 e il calcio ipertrofico di Conte, dominante in Serie A, non hanno mai avuto lo stesso impatto in Europa. Tanto che la sua miglior Juventus, quella dei 102 punti in campionato, venne eliminata dal Galatasaray ai gironi di Champions e poi dal Benfica in semifinale di Europa League da zero gol in 180 minuti. Proprio la sconfitta decisiva contro il Gala e la doppia sfida contro i lusitani, ancora oggi, vengono ricordate dagli juventini come le gare-manifesto di Conte, quelle in cui il tecnico salentino ha manifestato – e ha pagato – la sua eccessiva rigidità tattica, l’incapacità di staccarsi dai suoi feticci. Dalla difesa a tre, da certi meccanismi in fase di risalita dal campo.

Ancora oggi, quella Juventus resta la miglior squadra nella storia della Serie A

E così, quando lasciò la Juve, Conte era un allenatore accusato di staticità. Di essere rimasto fermo, di non essersi evoluto mentre si evolvevano la rosa e le ambizioni del club bianconero. I due anni in Nazionale hanno confermato, se possibile, pregi e difetti di Conte: la sua Italia, perennemente schierata col 3-5-2, ha offerto prestazioni di grande attenzione, di grandi contenuti emotivi, anche grazie alla quasi perfetta sovrapposizione con il blocco della Juventus 2011 –> 2014, al peso enorme di figure fondamentali come Buffon, Barzagli, Bonucci, Chiellini, Giaccherini. Certo, le scelte di Conte finirono per mettere un po’ in disparte il talento di giocatori come Insigne ed El Shaarawy. E anche Ciro Immobile venne sacrificato per fare spazio alla coppia Éder-Pellé, decisamente più funzionale per il calcio di Conte.

Ma c’è anche da dire che il percorso agli Europei di quella Nazionale si infranse contro la Germania campione del mondo in carica. E solo ai rigori, per altro al termine di una partita sofferta, sì, ma non clamorosamente squilibrata. Va aggiunto inoltre che gli Azzurri, prima di incontrare la Germania, batterono Belgio e Spagna con una squadra di qualità decisamente inferiore all’Italia di oggi. E il gioco proposto da Conte venne apprezzato tantissimo. Al punto che Sid Lowe del Guardian, dopo il successo contro la Spagna, scrisse che «il ct italiano ha messo a punto un piano partita perfetto: ha cercato di allargare e allungare il campo, di pressare in modo furioso i palleggiatori spagnoli, di togliergli il respiro. Ed è così che ha vinto la partita».

Una partita capolavoro

Ecco, questo è un aspetto fondamentale: l’Italia di Conte, a Euro 2016, era una squadra che giocava – difendeva, soprattutto – con molta più aggressività rispetto alla Juve di Conte. E il Chelsea dell’anno successivo, campione d’Inghilterra con sette punti di vantaggio sul Tottenham, giocava in modo ancora diverso: intanto, a Londra, Conte ha impostato un modulo leggermente diverso, un 3-4-2-1 in cui Hazard e Willian (oppure lo spagnolo Pedro) gravitavano alle spalle di Diego Costa. Dall’arrivo del tecnico leccese, poi, i Blues si distinsero subito per un possesso palla molto ricercato, una sorta di nuova edizione del gioco di posizione di stampo catalano.

Nel corso del tempo, quindi, Conte ha affinato diversi strumenti per poter elevare – o comunque per rendere meno prevedibile – il suo calcio. Anche partendo dal 3-5-2/5-3-2, un modulo di gioco che fino al suo avvento era declinabile solo in chiave ultra-difensiva. E invece oggi, complice anche l’incredibile lavoro di Gasperini a Bergamo e di Simone Inzaghi a Milano, la difesa a tre viene percepita in maniera diversa. Oppure, quantomeno, può essere percepita in maniera diversa. Conte, si può dire, è stato l’allenatore che ha avviato questo processo. Anche perché poi l’ha consolidato con le sue due stagioni all’Inter.

L’ultimo scudetto

Ecco, siamo arrivati più o meno ai giorni nostri. Al resoconto tattico dell’Inter di Conte, che dopo un primo anno di assestamento (2019/20), viziato anche dalla pandemia, ha letteralmente travolto il campionato di Serie A. Come? Con la debordante fisicità di Lukaku e Hakimi e Lautaro e Barella, naturalmente. Ma anche con un gioco sofisticato fin dalla prima impostazione, con una ricerca continua dello spazio tra le linee partendo dal diamante di costruzione, quello composto dai tre centrali difensivi e dal pivote davanti alla difesa. Sotto trovate un esempio piuttosto esplicativo:

Non male come esempio

È con Conte, non a caso viene da dire, che Brozovic è diventato il miglior regista della Serie A. Ed è con Conte che Barella ha compiuto il percorso che l’ha portato tra i centrocampisti più continui e completi d’Europa, che Lukaku e Lautaro si sono trasformati in due attaccanti di livello mondiale, che Hakimi ha compiuto il passaggio di stato da terzino promettente a top player, che Darmian è riuscito a imporsi come difensore centrale e come terzino, che Perisic ha giocato la miglior stagione della sua carriera.

All’Inter, va detto, i due anni con Conte sono costati tantissimo. E si sono conclusi con uno strappo netto tra allenatore e proprietà. Ma va detto pure che il ciclo portato avanti da Inzaghi nasce col tecnico salentino. Ed è un discorso valido sia a livello di cultura tattica che per quanto riguarda la composizione della rosa. Vero anche che Conte, a Milano, ha caldeggiato gli acquisti di alcuni fedelissimi (Moses, Vidal) e di rincalzi non proprio Under (Alexis Sánchez, Young) che hanno pesato tantissimo sul bilancio nerazzurro. Ma, allo stesso tempo, il tecnico salentino ha valorizzato al massimo i già citati Barella, Brozovic, Lukaku, Lautaro, Hakimi e Darmian, a cui possiamo aggiungere anche Bastoni, Skriniar e De Vrij. Tutti giocatori che hanno portato tantissimo all’Inter, a livello tecnico ma anche economico.

Tottenham

Conte stava avviando un percorso simile anche al Tottenham, dove gli avevano allestito una squadra composta da profili promettenti (Kulusevski, Bentancur, Romero, Emerson Royal, Richarlison) mixati con giocatori affermati e di qualità riconosciuta come Harry Kane, Son Heung-min, Højbjerg, Davies, Dier. Le cose sono andate piuttosto bene il primo anno, ma poi sono letteralmente precipitate alla fine dell’inverno 2023. Dal punto di vista tattico, il Tottenham di Conte era una squadra che seguiva i principi storici del suo manager, però riadattati alle caratteristiche dei giocatori in rosa: ancor più verticalità e ricerca meno ossessiva del possesso dal basso, utilizzo maggiore delle catene laterali (anche perché Conte era tornato al 3-4-3), pressing asfissiante in fase di non possesso.

Poi, come detto, tutto è finito con l’esonero di marzo 2023. C’è da sottolineare che Conte, in questa intervista al Guardian rilasciata poche settimane prima del suo addio, aveva annunciato di volersi prendere un periodo di pausa. O, comunque, di aver rivisto le sue priorità dopo la morte di Gian Piero Ventrone, il suo storico preparatore atletico, di Sinisa Mihajlovic e di Gianluca Vialli. Aveva detto di sentirsi fiaccato a livello personale, anche perché lontano dalla sua famiglia – che era rimasta in Italia.

Come dire: a livello tattico, l’anno e mezzo come manager del Tottenham ha un peso relativo. Deve avere un peso relativo. Anche perché l’avventura nel Nord di Londra è finita con un attacco frontale ai giocatori, accusati di essere «degli egoisti che non sanno e non vogliono giocarsi niente di importante». Praticamente le stesse cose riscontrate e raccontate qualche giorno fa da Ange Postecoglou, l’allenatore che ha preso il suo posto sulla panchina degli Spurs.

Conclusioni

L’idea di voler tornare in Italia era evidentemente vera, se Antonio Conte ha scelto Napoli per ripartire. Per ricominciare. Non c’è più tempo/spazio per parlare di come potrebbe essere il Napoli di Conte, ma ora possiamo dedurre che tipo di allenatore è arrivato in azzurro. In virtù di tutto quello che abbiamo detto e visto finora, è doveroso inquadrare Conte come un fenomenale lavoratore di campo e sul campo, come un tecnico solo apparentemente fermo nel suo percorso evolutivo.

Certo, abbiamo visto che alcune idee, per Conte, sono indiscutibili, non modificabili. Sono dei dogmi. Ma è vero anche che questi dogmi funzionano, cioè hanno sempre – o quasi sempre – portato a degli ottimi risultati, per le sue squadre che ha allenato. Insomma, stiamo parlando di un allenatore dallo spirito e dalla mentalità vincente, e che sa dare una profonda identità tattica alle sue squadre. Esattamente ciò che serviva al Napoli dal giorno dell’addio di Spalletti, esattamente ciò che De Laurentiis non è riuscito a trovare in Garcia, Mazzarri e Calzona. E questa è già un’enorme garanzia, ancora prima di verificare come si muoveranno il presidente e Manna sul calciomercato.

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