L’ortodossia si è adeguata a Lotito. Per la Lazio è storia solo quello che non esiste più da cinquant’anni, non sa proteggere la storia contemporanea
Davanti al caso Immobile l’ortodossia laziale ha perso la sua innocenza
Questa storia va raccontata, non ci si può sottrarre, “right or wrong, is my country”. Davanti al caso Immobile l’ortodossia laziale ha perso la sua innocenza. L’ortodossia, non il mondo ultrà con le sue regole ma la più trasversale chiesa di fedeli e severi custodi della storia del club, ha smarrito la sbandierata superiorità morale nei confronti della piazza romana.
Il capitano cannoniere all time del club, 8° marcatore assoluto della serie A, a 4 gol da Baggio, 8 da Di Natale, 15 da Altafini e Meazza al 4° posto, – tutti raggiungibili in due normali stagioni – tre volte capocannoniere e più forte bomber italiano in attività, Scarpa d’oro, campione d’Europa da titolare, insomma la leggenda Immobile è stata ceduta in un lampo, come un Calafiori qualsiasi. È successo davvero? L’addio di Immobile è stato fatto coincidere con l’inizio del ritiro di Auronzo, l’ortodossia in partenza messa davanti al bivio, prendere o lasciare? L’ortodossia l’ha guardato andare via senza rotture, sollevazioni. Un addio già colpevolmente diluito dentro le recriminazioni generali di una stagione sballata, poi falsamente rimesso in piedi all’ultimo, a cose fatte, con lacrime di coccodrillo. Lotito ha abituato così tanto ai conti della serva che è toccato pure al caso Immobile: risparmio di stipendi e bonus come plusvalore, un prezzo minimo di cessione. Di qui, un attimo prima delle lacrime tardive, il sollievo dell’ortodossia diventata più realista del re in ottica calciomercato. Il finale amaro di Immobile spacciato come inevitabile tributo al dio delle tentazioni estive. È qui che Lotito ha stravinto, l’ortodossia era già pronta ad adeguarsi.
Piacciono sempre i discorsi degli sconfitti, di chi si ritira, perché nell’epoca di storytelling se li scrivono loro, nessuno muove un dito, a chi rimane basta applaudire. La Lazio non ha mai parlato di se stessa sui social come nel video di congedo di Immobile. Poteva essere il discorso di rilancio di una stagione, che molti giustamente temono, e di un giocatore che ha bisogno di ritrovare se stesso? No. La tradizione dice che le bandiere esistono solo se maledette e retrò, i viventi sono difficili da gestire, alla prima difficoltà si va in crisi. È una notizia che nell’osannato cinquantenario dello scudetto del 1974, dopo la lettera d’intenti di Lotito a Lenzini (mica a Cragnotti, 84enne in ottima salute), la stessa Lazio lasci andare via l’ultima figura leggendaria (e lotitiana), e l’ortodossia stia a guardare. Forse si preferisce come punto di riferimento il silente Radu, recordman di presenze, giornalisticamente figura mai esplosa né esplorata?
L’ortodossia laziale ha il mito della sua Storia, la sicurezza che tutto finisca negli annales, protetto, ricordato, celebrato, mai più però sul campo. Una risorsa nata per salvare l’identità in tempi bui, diventata una gabbia in tempi di pace. “Sei nella nostra storia” ha gridato subito l’ortodossia a Immobile, è l’esorcismo con cui davanti alla cessione si tiene il piede in due staffe. Ai ragazzi che vivono sulla playstation, che non sanno cosa sia l’Italia ai Mondiali, e non giocano nemmeno in cortile, cosa gli dai per avvicinarsi alla Lazio? Le memorie di un tifo crepuscolare? Le nostalgie tirate a lucido? Alle passioni non si bussa con le enciclopedie o con i sermoni.
La Storia ridotta a museo di una questione privata è il contrario di una bacheca di trofei su cui tutti possono dare giudizi. Il vantaggio obtorto collo dei tifosi di Juve, Milan, Inter, è potersi nascondere dietro le bacheche di trofei. Di fronte ad amare decisioni dirigenziali, resta almeno il trofeo. Per la dimensione Lazio è diverso, rinunciare al calibro di Immobile, da vivo, è un errore. Doveva invece chiudere alla Lazio, restare in società (ma poi quale? c’è un uomo solo al comando). “Conta solo la maglia” ribadisce l’ortodossia, ma non quello che quella maglia ha conquistato. Prima del congedo Immobile ha ricordato sui social di aver vinto gli Europei con l’Italia, successo che di fronte al naufragio spallettiano e allo spettro della vicine qualificazioni mondiali sta riacquistando valore, mentre l’ortodossia, anche durante questi europei, non ha smesso, in un afflato anti-sistema, di ricordare il solito vaffa di Chinaglia a Valcareggi. Due lingue diverse.
Ma perché quindi l’ortodossia laziale si permette il lusso di guardare andare via Immobile? Perché ha deciso che deve archiviare la pratica quando invece Immobile può ancora gonfiare gli annales? Il fattaccio è iniziato con l’avventura Sarri, nata per ripicca per coprire la voragine lasciata dalla partenza del figliol prodigo Inzaghi e per tamponare la geniale chiamata americana di Mourinho. L’investimento costoso non è andato a dama e ha lasciato la Lazio in mezzo a un guado di velleità e vecchi problemi. Da subito, insieme alla rassegna stampa che si portava appresso Sarri, la temperatura si è alzata in tutto l’ambiente, tra pregressi e aspettative, però nessuno ha chiuso la valvola di sicurezza. Dopo l’inatteso secondo posto, gli inattesi soldi arabi per Milinkovic Savic – una manna per i conti della Lazio che temeva da tempo che il serbo andasse via senza guadagnarci – hanno fatto credere che il miracolo potesse ripetersi, cioè vendere a caro prezzo addirittura il capitano reduce dalla stagione dell’infortunio nel momento peggiore.
L’ortodossia aveva già pronto il cavillo legale, “non possiamo difenderlo a prescindere come loro hanno difeso Totti”. Sindrome che non dovrebbe attecchire sul laziale, sopravvissuto a Nesta rapito dal Milan dalla mattina al pomeriggio. Stavolta però uno come Immobile si poteva trattenere. Invece l’ortodossia ha pensato a una sliding door per alzare la posta, cambiare pelle, dna, tutto di fretta. Essere Percassi in una sessione sola di mercato (dopo non averlo mai considerato). Il fatale rigore non fischiato alla Roma nella finale di Europa League ha rafforzato le velleità di scalare definitivamente posizioni in Serie A, in un campionato però già ingombro dei soliti pesi massimi, col Napoli (sempre snobbato ai tempi di Sarri) che vince uno strepitoso scudetto, e con i ricchi outsider di successo come l’Atalanta. All’improvviso è andata stretta la narrazione laziale costruita sul tesoretto di Coppe Italia e Supercoppe, “le briciole lasciate dalla Juventus”, sui record di Immobile. Ci si è accorti in ritardo che la Lazio non è la 5° forza in assoluto del campionato, come immaginava Lotito, e che ogni anno ci sono 8 squadre per 4 posti.
E così l’estate scorsa Immobile, reduce dalla prima magra stagione (14 reti), è stato mentalmente scaricato appresso alle velleità di una fetta di Roma calcistica che ha sempre pensato di essere immune alla ferocia e all’opportunismo della città dove dice di giocare a pallone dal 1900. Invece da oggi nella via crucis del club (ogni club ne ha una), la fermata Immobile ci sarà per sempre.
Nell’ultima stagione l’ortodossia è passata dall’epocale al monolocale, stipata dentro una stanza di delusioni e isterie, di vorrei ma non riesco, surriscaldata dal fatto che la chiave per uscirne ce l’ha solo Lotito. La storica vittoria della Lazio contro il Bayern a Roma con rigore di Immobile non è bastata a entrare negli annali, per l’agonia della stagione di Sarri è stata persino una procrastinazione. E così è arrivato il processo a Immobile per aver sprecato l’unica occasione laziale nel ritorno a Monaco. Come in estate, si è voluta vedere una sliding door, del tutto velleitaria, pretestuosa. Hanno accusato Immobile di aver buttato all’aria qualcosa che in realtà non c’è da decenni: il feeling con le coppe europee. La Lazio è l’unica italiana di livello a non aver disputato almeno una semifinale di Europa League negli ultimi dieci anni.
L’ortodossia doveva fare solo una cosa: fregarsene delle polemiche per l’arbitro di Lazio-Milan di campionato, una sconfitta piena di frustrazione alla vigilia di Monaco, fregarsene di una stagione che faceva acqua da tutte le parti, e ricordare di salire a Monaco per fare la partita della vita, quella che capita ogni 20 anni. Nel nome di Mihajlovic e D’Amico, come se non ci fosse un domani e non per proseguire il cammino in Champions. Silenzio invece dell’ortodossia su Monaco. Sarri è andato con se stesso, non con la Lazio, ha fatto il compitino per mettere in vetrina il suo calcio, come in casa dell’Atletico Madrid, con entrambe le squadre già qualificate, invece di usare la trasferta spagnola come grande prova per l’improbabile turno successivo contro le corazzate europee. Anche qui l’ortodossia ha taciuto, salvo il processo a Immobile.
Sarebbe servito nel 2018 un processo a Inzaghi e al capitano Immobile per Eintracht-Lazio 4-1 di Europa League ma la disfatta passò in cavalleria, perché allora le velleità di stare al tavolo dei grandi non esistevano. Si poteva imparare, seminare. Ma chi ne ha voglia? Oggi invece la ferocia di Roma è arrivata nel mondo Lazio, e l’ortodossia ha deciso che si può fare a meno di Immobile, salvo imbalsamarlo. E l’integralismo? Può aspettare. Del resto l’ortodossia aveva glissato su questa eresia di Sarri, “più emozionato di vincere il derby di Coppa Italia che battere il Bayern”. Non era il solo a vedere quel derby di coppa come la panacea di tutti i mali del girone d’andata. Invece ha finito per rimettere sui binari la Roma low cost di DDR e dare altra pressione in casa Lazio che infatti ha visto Sarri mollare.
Il piccolo mondo antico della Lazio, pur non potendoselo permettere a livello mediatico, ha preso le distanze in altre occasioni e modalità da molti big della storia recente, Marchegiani, Fuser, Nedved, Mancini e altri. Ripicche, sciatterie, risentimenti che un’agenzia di lobby risolverebbe in nome della fede laziale, ma non l’ortodossia che non se ne preoccupa. Stavolta però l’ortodossia ha rinnegato se stessa. Dal canto suo Lotito non vuole accanto a sé nessuna figura del passato, quella che avrebbe probabilmente gestito al meglio la questione Immobile. Ma è con questa cessione che l’irriducibile solitudine di Lotito dovrà fare i conti.