L’ex nuotatrice a Vogue parla di Montreal ’76: «Erano intimidite e impaurite dal regime, dai sorveglianti speciali che le seguivano a vista, sapevamo tutti che era il famigerato Kgb»
Vogue intervista Elisabetta Dessy che, oggi a 66 anni è tra le modelle italiane più iconiche, incarnazione di un concetto molto contemporaneo di autenticità, l’age positivity. Nel 1976 fu alle Olimpiadi di Montreal come nuotatrice italiana, poi il suo cammino la vedrà conoscere da vicino la Guerra Fredda e vivere esperienze indelebili – da un assurdo arresto a Tokyo all’incontro inaspettato con la Regina Elisabetta II – fino agli scintillii del fashion system.
Prova a descrivere l’emozione di partecipare a quell’Olimpiade in cui stabilì il record italiano nei 100 metri stile libero
«Impossibile definirla, ma è qualcosa di travolgente. Credo che sia la stessa sensazione provata da ogni olimpionico ora a Parigi 2024: lo sport è il motore dell’ uomo, lo è stato sin dagli antichi Greci e lo sarà sempre. Anche se i veri atleti sono altri».
Di chi parla?
«Dei genitori, quelli che fanno sacrifici per iscriverli alle scuole sportive, che li accompagnano ogni giorno agli allenamenti, che preparano le merende, organizzano i compiti… Anche loro meritano delle medaglie».
Da atleta ha incontrato n numerosi personaggi, dall’allora presidente del Consiglio Aldo Moro, al presidente francese Valéry Giscard d’Estaing, Juan Carlos di Spagna e Karim Aga Khan, 49esimo Imam dei musulmani Ismailiti Nizariti.
Quanto era presente la politica nello sport degli anni 70?
«Moltissimo, un danno collaterale che vedeva una gioventù sportiva utilizzata come arma dal blocco comunista dell’ Urss contrapposto a quello liberale e ludico dei Paesi occidentali. Era una seconda Guerra Fredda che si combatteva negli stadi olimpici e nei velodromi, nelle piscine e sui campi da calcio. Sa qual era il metro di giudizio?»
Quale?
«Il medagliere. L’Urss sfornava gli atleti migliori del mondo: invincibili, inarrestabili, vere e proprie divinità. Specialmente quelli che venivano dalla Germania dell’Est, la Ddr, il fiore all’occhiello dello sport per il blocco sovietico che aveva basato la sua strategia su un’unica grande menzogna: il doping. Vincevano tutto, impossibile competere con loro».
Ne ha avuto degli esempi diretti?
«Le donne. Quelle che incontravo in piscina erano statuarie, mascoline, con voci maschili e volti sempre tristi e rassegnati: erano costrette a doparsi. Una volta negli spogliatoi vidi una di loro, Gudrun Wegner, mentre si radeva il viso davanti allo specchio. Quando prese il rasoio, rimasi esterrefatta».
Le parlò?
«No, non ci era permesso familiarizzare con loro. Erano intimidite e impaurite dal regime, dai sorveglianti speciali che le seguivano a vista, sapevamo tutti che era il famigerato Kgb. Ma, a volte, le regole esistono proprio per essere infrante, soprattutto quando la partita da giocare diventa di vitale importanza…»
Ovvero?
«Ricordo che nel villaggio Olimpico erano gli stessi atleti dell’Urss che si avvicinavano a noi in momenti concitati, come premiazioni o riscaldamenti, per scambiare qualche parola in un inglese appena abbozzato. Ci chiedevano abiti occidentali, le nostre divise, cuffiette e occhialini. Noi, senza fare domande, davamo loro le nostre cose in automatico: era l’unico modo per farli confondere nella folla, per aiutarli a scappare, a tornare dalle loro famiglie. Mi sono sempre chiesta quanti ne siamo riusciti a salvare».