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La figlia di Monicelli: «A Venezia: “papà posso avere un pass per i film?”. “Quale pass, paga il biglietto”»

Al Corsera: «Era a Genova nel 2001 con Citto Maselli. Si schierò con chi aveva subito quei soprusi indicibili. Non aveva paura. Credeva nella contestazione»

La figlia di Monicelli: «A Venezia: “papà posso avere un pass per i film?”. “Quale pass, paga il biglietto”»
Italian director Mario Monicelli poses for photographer on March 20, 2008 in Paris. The French Cinematheque started on May 19, 2008 a retrospective of the films of the Italian master till May 19 in the French capital. AFP PHOTO JOEL SAGET (Photo by JOEL SAGET / AFP)

La figlia di Monicelli: «A Venezia: “papà posso avere un pass peri film?”. “Quale pass, paga il biglietto”».

Il Corriere della Sera intervista Ottavia Monicelli, la figlia di Mario il celebre regista. Une bella intervista di Eugenio Murrali.

Che padre era Monicelli?

«Mi ha sempre sostenuta. Ha educato me e le mie sorelle alla libertà, ma era severo, non amava si perdesse tempo. Carlo Vanzina, che fu suo assistente, diceva che era sempre a fuoco: non ripeteva più di due volte un ciak».

Nel 2013 Ottavoa aveva già parlato del regista nel libro “Guai ai baci”.

«Negli ultimi anni abitava in una casetta in via dei Serpenti. Andava in autobus, non si concedeva vacanze, non era interessato ai soldi».

Le parlava del padre Tomaso, che nel ’46 si tolse la vita?

«Solo una volta. È stato un trauma per papà, che era in casa in quel momento».

«I sentimenti non erano ben visti: “Che ti piangi?”. Per un figlio questa freddezza non è semplice. Crescendo ci si prende dimestichezza, si assimila. Anche io vivo tra sentimento e disincanto».

Il Monicelli politico

Era un uomo politico?

«Molto e questo l’ho ereditato. Era militante. Ha attraversato l’onda della protesta studentesca. Era a Genova nel 2001 con Citto Maselli per girare immagini sul Genoa Social Forum. Si è schierato con chi aveva subito quei soprusi indicibili. Non aveva paura. Credeva nella contestazione».

Nel libro scrive: «Ho cercato il suo amore». Dov’era?

«Era lì e non lo capivo. Era tutto amore: i piccoli gesti, i nostri aperitivi silenziosi, lui che leggeva il giornale, io un libro, seduti accanto. Ultimamente andavamo in un ristorante tremendo in via Cavour con una luce al neon indescrivibile. Facevano tre piatti: la minestrina, l’uovo al tegamino e qualcos’altro. Mi diceva: “Prendi la minestrina! È buonissima”. E poi vino, che lui reggeva, io meno. Parlavamo di tutto».

Al Festival di Venezia?

«“Papà posso avere un pass per vedere i film?”. “Che pass e pass, paga il biglietto”».

Andavate al cinema?

«Odiava andarci. A volte lo trascinavo e lui dopo poco si dileguava. Da casa lo chiamavo: “Papà, dove sei finito?”. “Era una noia! Lento!”».

«Non parlava mai male di nessuno. Amava però ascoltare i pettegolezzi, perché avevano una dimensione popolare. Eravamo fissati con una radio notturna: le persone telefonavano e si raccontavano. Il giorno dopo ci chiamavamo per commentare. Erano una fonte d’ispirazione».

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