Parliamo di un finanziamento pubblico da 20 miliardi di euro l’anno, anche e soprattutto agli sport “minori”. Un modello unico nell’Europa occidentale
I francesi più anziani se la ricordano, la vergogna nazionale delle Olimpiadi di Tokyo del 1964. E quella dei Giochi di Roma quattro anni prima. Pochissime medaglie, ori nemmeno a parlarne. Una nazionale, la Francia, che partecipava solo, senza vincere quasi. Ad Atlanta 1996 ecco invece 15 medaglie d’oro, 37 in totale. “Non fu un caso”, racconta sul Guardian Philippe Auclair. Ci aveva pensato il generale de Gaulle.
“Il denaro pubblico affluì nello sport dalla metà degli anni ’60 in poi. Il centro di allenamento in quota di Saint-Romeu, nei Pirenei, fu aperto in tempo per aiutare gli atleti francesi ad acclimatarsi alle condizioni di Città del Messico durante i Giochi estivi del 1968. I lavori iniziarono al Parc des Princes nel 1970. L’Institut National du Football, che in seguito sarebbe stato trasferito a Clairefontaine, aprì i battenti a Vichy nel 1972. Ciò che le Grand Charles voleva, di solito lo otteneva. Atlanta 1996, come la Coppa del Mondo del 1998, fu la sua eredità”.
“Una cosa, tuttavia, ha distinto la Francia. Quando altri paesi come il Regno Unito hanno risposto alla professionalizzazione dello sport riversando denaro nel finanziamento di atleti e allenatori d’élite (e delle strutture di cui avevano bisogno per allenarsi, medici e fisioterapisti al seguito) con l’obiettivo di piazzarsi il più in alto possibile nel medagliere, la République ha scelto di distribuire la sua ricchezza più ampiamente. Le somme coinvolte erano e rimangono colossali. Le autorità locali francesi dedicano 12,5 miliardi di euro ogni anno allo sport, 12 volte il contributo dei loro equivalenti britannici e il contributo delle casse pubbliche al finanziamento dello sport ammonta ora a 20 miliardi di euro”.
La maggior parte degli investimenti è andata alla costruzione di nuove infrastrutture e al sostegno pubblico di quasi ogni attività sportiva immaginabile. Investimenti a pioggia che ha allargato il bacino d’utenza ponendo le basi per lo sviluppo dei campioni futuri.
“Le figure sportive venerate della Francia tendono a essere individui che hanno fatto parte di un trionfo collettivo: pensate a Zinédine Zidane, pensate a Nikola Karabatic, forse il più grande giocatore di pallamano della storia, pensate a Serge Blanco. Pensate a Teddy Riner, già medaglia d’oro individuale a Londra e Rio, che ha ispirato la squadra mista di judo della Francia a battere il Giappone sul loro suolo tre anni fa. Se sei abbastanza bravo da vincere, bravo, ma se sei abbastanza bravo da far vincere la tua squadra, sei un vero eroe”.
Per il Guardian “è una cultura unica nell’Europa occidentale, un modello unico, stranamente simile al sistema nei paesi del Patto di Varsavia prima del crollo dell’URSS, senza l’ideologia e i programmi di doping sponsorizzati dallo Stato. Si adatta bene alla lunga tradizione del dirigismo francese in atto da quando Jean-Baptiste Colbert divenne il primo ministro di Stato di Luigi XIV e, alcuni direbbero, il primo tecnocrate a governare un paese europeo. È in sintonia con la convinzione gollista nelle virtù di un’“economia mista” in cui i confini tra il settore privato e quello pubblico sono così sfumati che può essere difficile distinguere tra i due”.
“La Francia, va ricordato, ha avuto un Ministero della pianificazione che ha elaborato piani quinquennali fino al 2006, è sopravvissuto a tutti i cambiamenti politici dalla fine della seconda guerra mondiale e ora si è trasformato in France Stratégies, un ingranaggio poco noto ma ancora influente nella ruota amministrativa francese. A questo proposito, il ruolo dello Stato nel guidare il successo sportivo francese è conforme a ciò che ci si aspetta dalla République in quasi ogni altro aspetto della vita pubblica”.