Trent’anni fa moriva il grande gallerista. Il documentario di Gelormini, prodotto da Azzolini, ce lo fa rivivere. Con garbo, senza enfasi ma senza minimizzare
Trent’anni fa, moriva Lucio Amelio. E viene da sorridere a leggere i paroloni contemporanei sul fare sistema. Su Napoli che starebbe diventando modello nazionale. Oggi è tutto seguito passo passo. Riunioni, tavoli programmatici, sinergie. E poi pensi a lui. Che a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, tra il colera e gli anni record dei morti ammazzati per camorra, portò Napoli al centro della galassia dell’arte contemporanea. Pochi mesi fa, è uscito un documentario (su RaiPlay e da oggi anche su Sky Arte) su questo gigantesco personaggio che nel calcio sarebbe definito un fuoriclasse. Lo ha girato Nicolangelo Gelormini. E lo ha prodotto Davide Azzolini uno che per brevità definiamo partenopeo atipico. Che da circa vent’anni attraverso la sua produzione trasversale racconta personaggi e angolature (napoletani e non) dati per scontati. Da Enzo Avitabile, firmato da Jonathan Demme (una storia che andrebbe raccontata bene) a Napoli 44 di Norman Lewis (per la regia di Francesco Patierno). E adesso si è dedicato a Lucio Amelio napoletano per cui varrebbe la pena utilizzare quel termine oggi purtroppo inflazionato: geniale. È il motivo per cui non lo utilizzeremo.
Lucio Amelio sta a ricordarci che la storia di Napoli è sempre la stessa. Forse non riguarda solo Napoli, non lo sappiamo. Fatto sta che la città riconosce il tuo valore solo post mortem. Il documentario lo mostra chiaramente, ma senza assumere un tono di denuncia. Osserva. E riporta. Senza enfasi ma anche senza minimizzare. In realtà Lucio Amelio il problema non se l’è mai posto. Era troppo impegnato a lavorare e a seguire la sua passione. A trasformare Napoli in luoghi di incontri possibili, come scrive Artribune. Era sempre pronto a rialzarsi. Ed era anch’egli un artista. Come quando alla fiera di Basilea chiese ai suoi amici di andare periodicamente al microfono e annunciare “il signor Lucio Amelio è atteso in direzione”. Il risultato fu la curiosità che si creò attorno a questo Lucio Amelio allora sconosciuto ai più.
Lucio Amelio e la domanda “ma che significa?”
Di episodi da raccontare ce ne sono tanti. Come quando si incazzava alla domanda “ma che significa?” riferita a un’opera. «L’arte contemporanea è una bomba a scoppio ritardato. Tu guarda, poi dopo, quando avrai assimilato, capirai di cosa si tratta». Amelio giocava col fascino che Napoli esercitava su artisti e acquirenti. Era un venditore inarrivabile. Vendeva qualsiasi, come ricorda in maniera colorita Nino Longobardi. Poi c’è la serata di cui a Napoli si parla da sempre. La festa al City Hall Cafè storico locale di Dino Luglio. Festa raccontata ancora oggi. E che compare anche nel primo documentario di Giorgio Verdelli su Pino Daniele. Non “Il tempo resterà” (decisamente dimenticabile), ma quello allestito in pochi giorni e mandato in onda sulla Rai pochi giorni dopo la morte del padre di Napul’è : un prodotto superlativo e finito chissà dove.
Ma torniamo a “Lucio Amelio”. Il documentario ci porta in quella festa, in quella Napoli che in cui la cultura e l’originalità non avevano tempo da perdere con le barbarie di oggi sul neoborbonismo e idiozie varie. Amelio portò a Napoli e fece incontrare Beuys (il suo artista d’elezione) e Andy Warhol. Così come fece cadere la sacralità del Museo di Capodimonte con un’incursione di arte contemporanea: il grande Cretto nero di Alberto Burri accanto a Caravaggio. Ovviamente l’invenzione e la mostra Terrae Motus che oggi è alla Reggia di Caserta. L’aveva ideata per Napoli, gli ultimi anni della sua vita li dedicò alla ricerca di un luogo che potesse ospitarla e che poi sarebbe diventata il museo d’arte contemporanea di Napoli. Tante le porte in faccia che ricevette, pari al numero di elogi che oggi gli riservano. Fu certamente un dolore per lui. Ma Lucio Amelio è e resterà nella storia di Napoli (e ovviamente non solo), dei funzionari burocrati non è rimasta traccia.