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L’ultima marcia di Schwazer: «I miei bimbi hanno capito che, dopo otto anni di squalifica, non sono Superman»

Al CorSera: «Dire a mia figlia che non ce la facevo per la sciatica, non me la sono sentita. Mi piacerebbe allenare, spero nel ciclismo o nel calcio»

L’ultima marcia di Schwazer: «I miei bimbi hanno capito che, dopo otto anni di squalifica, non sono Superman»
archivio Image / Sport / Alex Schwazer / foto Imago/Image

Alex Schwazer intervistato dal Corriere della Sera. L’atleta italiano travolto da due inchieste per doping che hanno portato a due squalifiche (la prima da reo confesso, la seconda molto discussa e dubbia) è tornato a marciare. Non lo potrà fare per le Olimpiadi di Parigi, suo desiderio da quanto la Wada lo ha squalificato. Così ha deciso di farlo per una gare minore, per i suoi figli.

Schwazer: «Avevo bisogno di indossare il pettorale un’ultima volta»

Folle e tormentata: con la sciatica, fermandosi più volte, finita in lacrime tra le braccia della sua famiglia. Perché non rimandare?

«Avevo bisogno di indossare il pettorale un’ultima volta, davanti ai miei bambini. La Ida teneva il conto dei giorni sul calendario della scuola; non potevo deluderla. Io e lei abbiamo un rapporto molto emotivo, ha visto che per otto anni non mi sono mai fermato, mantenendo un livello di allenamento alto. Un totale di 50 mila ore in marcia: sono tante. No, non potevo rimandare, capisce?».

Era troppo importante.

«Ida ha capito subito che il papà si allenava per tornare all’olimpiade di Parigi, dopo aver saltato Londra, Rio e Tokyo. Purtroppo non è stato possibile. Mi ha sempre fatto un sacco di domande, ha vissuto con me il percorso, si è intristita quando il sogno olimpico è sfumato. Allora le ho detto: Ida, gareggio ad Arco. E ogni sera, avvicinandosi la data, quando andava a nanna cancellava un giorno sul calendario. Dirle che non ce la facevo per la sciatica, ecco, non me la sono sentita».

13 km di sofferenza, davanti al suo piccolo mondo antico, senza un lamento. Prima di ritirarsi.

«Il problema della sciatica è nato tre settimane fa, ma non l’ho detto a nessuno. Dal mio oro a Pechino 2008, i materiali sono stati rivoluzionati: stavo provando i nuovi modelli di scarpe, alla fine di un allenamento è spuntato un dolorino. La mattina dopo avevo le ripetute sulla ciclabile vicino a casa, c’era vento: l’aria sulla schiena ha acuito il problema. Da lì in poi è stato impossibile marciare normalmente».

Continua Schwazer:

«Il messaggio ai bimbi è arrivato: lasciando tutto in pista, come nella vita, si arriva dove le possibilità ti portano. Hanno capito che, dopo otto anni di squalifica, non sono Superman: non posso esserlo. Faccio le cose che mi sento dentro, e a volte non basta».

La pressione auto-imposta, la ricerca del dolore (ha rifiutato l’infiltrazione), l’approccio masochistico. Non le sembra uno schema che si ripete?

«Ha ragione. Luci e ombre: credo di essere un po’ migliorato, ma purtroppo io sono fatto così. Sono più bravo ad allenare gli altri che me stesso. C’è una parte nera che convive in me ed è la stessa che mi faceva conquistare le medaglie: a Pechino, sedici anni fa, volevo ritirarmi a metà della 50 km, non ce la facevo più. Ma ho tenuto duro. Mi frega la serietà: troppa serietà. Forse voglio coprire la paura di non farcela…».

Chiuso con l’atletica, Alex, cosa le riserva il futuro? Il 26 dicembre saranno 40 anni.

«Dall’atletica non mi ritirerò mai: ce l’ho dentro, non si può spegnere il fuoco. Sono un uomo libero: mi piacerebbe allenare atleti di altre discipline, portare esperienza e competenze in altri sport. Il futuro è la contaminazione: mischiare metodologie, ottenere quel marginal gain, quell’1% di performance che fa la differenza. Non ho titoli universitari ma leggo e studio. Se l’atletica non mi vuole, spero che il ciclismo o il calcio siano più aperti. Oppure le aziende e le scuole: ho molto da raccontare. Fino al 7 luglio ero fuori da tutto, ora posso essere un valore aggiunto per un club o un atleta».

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