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L’ultimo addio di Murray, il campione che ha devastato l’epica del dolore: «Il tennis non mi è mai piaciuto»

L’annuncio su X. Era diventato monumento ancheggiante: per oltre un decennio è riuscito a soffrire un attimo dopo l’altro, battendo anche il futuro

L’ultimo addio di Murray, il campione che ha devastato l’epica del dolore: «Il tennis non mi è mai piaciuto»
Britain's Andy Murray reacts during the men's singles match between Britain's Andy Murray and France's Gilles Simon on day one of the ATP World Tour Masters 1000 - Paris Masters (Paris Bercy) - indoor tennis tournament at The AccorHotels Arena in Paris on October 31, 2022. (Photo by Christophe ARCHAMBAULT / AFP)

Affaticato. Mezzo zoppo. Con la fronte corrugata pure mentre detta al suo social media manager (sempre che ne abbia uno) il testo del suo commiato. E quell’espressione un po’ lanosa di chi scherza e non lo sai, ma se ridi beh, no: non stava scherzando mica. Deve aver indossato tutta la sua dolorosa ironia british dolore per scrivere «In ogni caso non mi è mai piaciuto il tennis» su X, Andy Murray. Per mettere in fila le parole dell’addio definitivo più fico di sempre. Dopo aver aggiornato la sua “bio” con un semplice tocco d’artista: da “gioco a tennis” a “giocavo a tennis”.

Eccolo l’ultimo vagone d’un treno emotivo che doveva essere giunto al capolinea da un po’. La chiusura di un’agonia celebrativa. Così la parola fine la mette lui, come piace a lui.

Murray ha 37 anni e già nel 2019 aveva pianto in conferenza stampa, in Australia, per dire basta. Sono passati 5 anni, un’anca di metallo e l’epica che non sapeva più dove rintracciare parole adatte al suo racconto. Come ha scritto il Guardian, il suo ritiro era diventato un’arco di carriera a se stante.

Aveva già forzato la storia, allargando il mito dei Big three a quattro. A spintoni, tra Nadal, Federer e Djokovic, s’era fatto largo pure lo scozzese più tignoso del Regno: lo Us Open nel 2012, i due Wimbledon nel 2013 e nel 2016, i due ori a Londra 2012 e a Rio 2016, il numero uno del mondo per 41 settimane e i 14 Masters 1000. Ma ad un certo punto Murray avrebbe potuto vincere o perdere, non avrebbe fatto molta differenza.

Aveva già trasformato il tennis in un dramma fisico, un decennio che andava avanti così. Era diventato un giocatore ipnotico. Un pendolo che s’inerpicava ritmicamente di qua e di là, da un punto all’altro del campo. Un monumento ancheggiante. Scomposto. Murray era diventato l’elegia del dolore come routine: giocava come un impiegato che raggiunge la fermata del tram, sempre la stessa da venti anni. Per talento, tempismo, tocco, tattica, agilità, muscolatura… sì, tutto questo. Ma soprattutto per convinzione agonistica. La certezza che avrebbe piegato la traiettoria della pallina, della partita, della carriera e della vita a modo suo. Aveva incatenato una lunghissima carriera agli istanti, uno dietro l’altro sospesi tra dubbio e futuro. La sua era diventata una processione d’intenti assoluti. Caracollante. Magnetica.

Murray ha tirato dritto, da quando vinceva a Wimbledon contro Federer a quando si iscriveva ai Challenger di Biella e Surbiton. Un nocciolo fumante di puro desiderio, nascosto dentro un involucro liso, scassato, appena sufficiente a reggersi in piedi.

E’ stato un atleta complesso, conflittuale, competitivo. Uno che peraltro ha sempre rifiutato narrazioni scontate, proiezioni. Quando in sala stampa gli dicevano quanto il suo approccio spietato al lavoro, la sua capacità di sopportare il dolore fossero ammirevoli, lui quasi se ne risentiva perché non ne poteva più di rispondere alle domande sul suo declino. “Quando ti ritiri?”. Era diventato un mantra. Ha risposto: “Dopo le Olimpiadi”. Non ha vinto la medaglia che voleva, in doppio. Come l’altro, come Nadal. Ma non facciamola più grave di quel che è: “Mi faceva male tutto già a 20 anni”. Come l’altro, appunto. Miti alle parallele.

Nel frattempo Murray è stato uno di quei campioni con una dimensione in più, parallela all’agonismo. Ha salvato Kyrgios da se stesso (diceva la mamma di Kyrgios); ha istigato Osaka a reagire agli insulti nel suo momento più nero, a farci pace; ha donato tutti i guadagni del 2022 ai bambini dell’Ucraina; è l’unico nel Tour che commentava apertamente le accuse di violenza sulle donne di Zverev; l’unico che cazziava pubblicamente Tsitsipas per le pause-bagno tattiche. Giocava con la fede infilata nei lacci delle scarpe e quando gli hanno rubato le scarpe c’è rimasto malissimo. E no: non è vero che il tennis non gli era mai piaciuto. Scherzava.

*Questo articolo è stato aggiornato il 1 agosto 2024, con il post d’addio definitivo – ma proprio definitivo – di Andy Murray.

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