A Oggi: «Sia tra noi che tra i palestinesi ci sono persone moderate e si può stare con entrambe le parti, invece di incolparci collettivamente, gli uni o gli altri»
Oggi intervista Ahinoam Nini, in arte Noa, grande interprete e autrice ma è anche una donna che ha i suoi principi e le idee molto chiare su ciò che stiamo vivendo nel nostro comune Paese, Israele.
«Sono stata profondamente delusa dai comportamenti di alcuni degli artisti miei colleghi e dall’incapacità del mondo di capire che sia tra noi che tra i palestinesi ci sono persone moderate e che non c’è nessun bisogno di stare da una parte del conflitto piuttosto che dall’altra. Si può stare con entrambe le parti, invece di incolparci collettivamente, gli uni o gli altri. Che poi sulla colpa collettiva ci guadagnano i nostri estremisti. E anche i loro»
La vedo triste. Torniamo per un attimo indietro nel tempo a quando questo momento difficile è iniziato. Dov’era il 7 ottobre?
«Ero in Israele in casa di amici e come tutti all’inizio non ci ho capito nulla. Per fortuna nella mia famiglia nessuno è stato colpito ma ben presto sono venuta a conoscenza dell’enormità e dell’orrore di quel giorno e di quante tra le persone che conosco ne sono state vittime, tra cui il mio amico Maoz Inon, l’organizzatore e il cuore dell’evento al Palazzetto di ieri, che vi ha perso entrambi i genitori, e Vivian Silver, una nota attivista per la pace, e molti altri ancora. Da quel giorno in poi si sono abbattute su questa terra le tragedie, una dopo l’altra. E così ho deciso di mettermi in moto. Ho pubblicato un post su Facebook dicendo che sono pronta ad andare ovunque mi fosse richiesto e ad aiutare chiunque ne avesse bisogno. E in molti mi hanno cercato. Sono stata da madri di caduti, in basi militari, dagli sfollati dalle loro case al nord e al sud e ho cantato per loro. Sono stati tra i momenti più belli della mia vita, per me è stato un privilegio poterlo fare malgrado mi abbia messo di fronte a grandi dolori e a sofferenze terribili. Del resto i primi due mesi dopo la strage sono stati straordinari. In quei mesi il governo era in stato di shock e incapace di funzionare in alcun modo. Al suo posto si è mosso il volontariato, si sono mosse le componenti della società israeliana in tutte le sfumature e così abbiamo scoperto per l’ennesima volta che gente meravigliosa vive in questo Paese e di cosa si è capaci collaborando l’uno con l’altro con coraggio e determinazione. Sono stati momenti di grazia».
E poi?
«Purtroppo, quando il governo si è ripreso dall’immobilità, è ripartita di nuovo la “macchina del veleno” di Netanyahu e del suo governo specializzato in divide et impera per controllare fomentando discordia, e così abbiamo dovuto ricominciare a protestare come ai tempi della riforma giuridica. Il Paese che vogliono gli estremisti e i suprematisti al potere non è quello in cui desidero vivere o sogno che vivano i miei figli, la mia famiglia. Quindi dobbiamo lottare, combattere. Quando vado alle dimostrazioni di protesta, provo speranza. E ci vado spesso. Protesto davanti alla villa di Netanyahu a Cesarea, oppure in via Kaplan a Tel Aviv munita di bandiera e di tamburo (suono bene il tamburo). A volte perfino da sola. Siamo in una situazione tragica, spalle al muro nella posizione di Fight or Fly, cioè “combatti o fuggi”, e io preferisco combattere piuttosto che fuggire. Amo moltissimo Israele ma non voglio che arrivi a un punto tale che non sia più possibile viverci. E proprio per questo l’evento del primo luglio è stato meraviglioso, ci ha dato la forza di continuare».