Vezzali fa a pezzi le fiorettiste, Di Francisca annichilisce la Pilato contenta del quarto posto. Anche Oliva toglie alibi al pugilato. L’agonismo, quello vero, non conosce scuse
“Io non ci sto a perdere nemmeno a briscola” è ormai un cliché. Chi frequenta il Paese reale, quello delle piazzette accaldate e delle bestemmie degli anziani traccia infallibile dell’unica ombra a disposizione, sa che nessuno mai ci sta, a perdere a carte. Ma Valentina Vezzali è stata una fuoriclasse della scherma, e dietro il luogo comune c’è uno stato dell’anima che non sfuma con gli anni, non sfiorisce con la pensione: il cattivismo dell’agonista puro. E’ un istinto predatorio che noi non abbiamo, e poco comprendiamo nella sua accezione più genuina. Perché siamo vittime più o meno consapevoli della retorica del calciatore-diplomatico, altrimenti detto “chepalle”: la grammatica delle parole di plastica che alimenta interviste ninna-nanna e tsunami di melassa, domande taciute e risposte nemmeno accennate.
E’ quell’affascinante scarto umano tra noi e loro – gli alieni che vincono perché li hanno allevati così e noi ammiratori – che alle Olimpiadi finisce alla portata di tutti. Perché parlano, e vivaddio non si tengono. E Così Vezzali a Repubblica commenta la disfatta del fioretto femminile dicendo che “ci vogliono anche testa e voglia”. Che “io, quando ho iniziato, davanti avevo le grandi, mi allenavo con Giovanna Trillini, quattro anni più di me, perdevo e tornavo a casa infuriata”. Che sì, gli arbitri, la maledizione della portabandiera (riferendosi a Errigo), e bla e bla e bla, ma “bisogna cercare di non trovarsi in quella situazione, perché se te la giochi all’ultima stoccata la meno forte vince sempre”.
E così Elisa Di Francisca, ex collega-rivale non per caso, che in diretta dallo studio Rai ascolta l’intervista post-gara di Benedetta Pilato – fuori dal podio dei 100 rana per un centesimo – e strabuzza gli occhi davanti a milioni di italiani perché la poveretta stava, in lacrime, parlando di “giorno più bella mia vita”: “E’ assurdo, surreale. Non voleva andare sul podio e allora che c’è andata a fare? Rabbrividisco”.
— Roberta (@inciu_cessa) July 30, 2024
E, altrettanto, Patrizio Oliva intervistato da Libero sullo scandalo della sconfitta dell’italiano Aziz Abbes Mouhiidine penalizzato dai giudici della boxe, che sì, ammette il “furto con scasso”, ma anche che “ha un po’ sbagliato Aziz. Si sarebbe dovuto gettare come un toro infuriato verso Mullojonov, invece ha combattuto senza grinta. Aziz ha sbagliato, è stato troppo molle nella terza ripresa, doveva dare il 200 per 100″.
Fate il minimo comune multiplo: sono gente spietata gli atleti olimpici. Gli schermitori in particolare. Animali che nella fatica, e nell’attesa dell’obiettivo, si sono allenati ad odiare gli alibi. A ricacciare indietro le scuse ad ogni delusione. A masticare il livore delle rivalità intestine, a usarlo come carburante, sorridendo della retorica del “gruppo” che tanto piace a pr e al consumatore medio. “Non ci volevamo bene”, dice Vezzali. Ed è anche per questo che si vince. Per contrasto, per opposizione. Lo sport presuppone l’avversario, fisico o cronometrico, materiale o psicologico (psichiatrico, anche). Sono coltellate, punteruoli, giudizi e critiche tutti i giorni. Lo sport olimpico è feroce, altroché.
Basterebbe andare sui social e fare la tara dell’indignazione per scegliere chi farsi piacere, se l’esercito dei cuoricini o questi ex campioni che traducono sempre, pure a carriera finita, la durezza dello sport a noi profani. Sicuri che poi, a Di Francisca, del nostro giudizio di indivanati con l’aria condizionata freghi il giusto, cioè niente.