A Oggi: «Ci sono dei momenti in cui penso che vorrei andare in vacanza ora, invece che tra due mesi. Ma poi mi dico: se non ci vado, è perché sto preparando una cosa molto bella, che in tantissimi si sognerebbero di fare».
Oggi intervista Yeman Crippa, nato in Etiopia, adottato da una famiglia di Trento insieme a cinque fratelli e due cugini, è la speranza azzurra per la Maratona di Parigi.
La sua prima gara l’ha corsa in quinta elementare. A Serle, sull’altopiano di Cariadeghe, nel lontano 2007. «Guarda che sono i Campionati italiani, non pensare di vincere», lo avvertì suo padre: «Arriverai dietro, quindi non metterti a piangere». Tornò a casa con una coppa e un tempo da paura: 2 minuti e 27 secondi sui mille metri, nove secondi in meno rispetto al secondo classificato.
Sorrido pensando alla frase di suo papà: “Non pensare di vincere”. Non credeva proprio nelle sue capacità?
«Zero. Lui è uno molto competitivo, e mi massacrava quando giocavamo a pallone. Mi dice sempre: “Quando ti intervistano, ricorda che è merito mio il carattere che hai. Chi è che te lo ha tirato fuori?”»
A soli 13 anni fa il record italiano sui 1.500 metri, e poi è un crescendo: oggi a 27 anni Yeman Crippa detiene tutti i primati nazionali sulle distanze che vanno dai 3 mila metri alla maratona.«Ero in crisi perché volevo fare il calciatore, ma Pego (il suo allenatore), piano piano, mi ha fatto piacere la corsa. All’inizio cercavo di saltare gli allenamenti. Ma lui senza mettermi pressione, mi ha fatto migliorare tanto. Abbiamo creato un bel rapporto, potrebbe essere il mio fratello maggiore. È stato un mezzofondista, quindi certe dinamiche le conosce. Emi capisce quando ci sono i giorni che non vanno».
Da 14 anni fa l’atleta professionista. Si allena due volte al giorno, ogni giorno. Non le pesa questa vita?
«Ci sono dei momenti in cui penso che vorrei andare in vacanza ora, invece che tra due mesi. Ma poi mi dico: se non ci vado, è perché sto preparando una cosa molto bella, che in tantissimi si sognerebbero di fare».
Chiama piccoli sogni una medaglia alle Olimpiadi o ai Mondiali. Da dove viene questo basso profilo? (Nel frattempo c’è un viavai di persone di tutte le età che vengono a congratularsi con Yeman, e a farsi un selfie con lui. Il 10 agosto, c’è da scommetterci, tutta Trento sarà incollata alla tivù a seguire la sua maratona, ndr)
«Nei ritiri in Kenya ho imparato a lavorare duramente senza lamentarmi, perché lì l’atletica è vissuta come una via d’uscita e per questo è fatta con passione. I grandi atleti africani sono tutti molto umili, gente tranquilla che non si vanta. Se da noi vai a parlare con uno che ha vinto le Olimpiadi, quasi neanche ti rivolge la parola».
Lei è nato in Etiopia, e a sei anni è arrivato in Italia, con un’adozione internazionale, insieme a cinque fratelli e due cugini. Che rapporto ha con il suo Paese di origine?
«Lì ho sempre il cuore. Ci sono tornato nel 2017, ma l’ho trovato molto stressante: al rientro dagli allenamenti, stavamo un’ora nel traffico di Addis Abeba. Capisco ancora qualcosina di aramaico ma faccio fatica a parlare. Invece mi sento quasi a casa a Iten, in Kenya, perché ho il gruppo con cui mi alleno, e conosco le persone. Iten è una città fondata sull’atletica, lì chi ha i soldi sono gli atleti e quindi gira tutto intorno a loro: i fisioterapisti, i tassisti che ti portano ad allenare… Un europeo ci vive con niente».