Gattuso, Cannavaro, Pirlo, Grosso, Inzaghi: le loro carriere godono di eccellente stampa e trascurabili risultati
Ora che anche Daniele De Rossi è saltato, Alberto Gilardino si aggira per gli stadi d’Italia con un’ombra alle spalle. Ogni tanto prova a sorprenderla, voltandosi di scatto. Ma niente: è sempre lì, asfissiante. La maledizione della leva “coachistica” del 2006. I campioni del Mondo sotto il cielo azzurro di Berlino, che avrebbero preso d’imperio i patentini a Coverciano per una successiva, impronosticabile, carriera di esoneri a ripetizione. De Rossi, Gattuso, Cannavaro, Pirlo, Grosso, Inzaghi, Oddo, Nesta, Gilardino appunto. Chissà quanti ne hai veduti, chissà quanti ne vedrai.
Smettiamola con la retorica dei figliuol prodighi: sono quasi vent’anni che l’Italia s’è desta nel ricordo di quelle notti, Nino ormai cammina caracollando col cuore pieno di paura d’essere licenziato. Ed è esattamente da questi particolari che si giudica un allenatore. De Rossi è l’ultimo caduto di quella generazione di fenomeni. Godono di eccellente stampa e trascurabili risultati.
Transfermarkt ci rende un servizio utile: appunta il tempo effettivo in carica di ognuno dei nostri eroi, in anni. De Rossi 0,51; Gattuso 0,72; Oddo 0,53; Nesta 1,27; Grosso 1,27; Pirlo 0,74; Inzaghi 0,99; Gilardino 0,76; Cannavaro 0,96. Ad indagare le statistiche aggregate si sfiora il voyeurismo macabro, non ce n’è davvero bisogno. Carriere complicate, zoppicanti, faticose. Esoneri ovunque: dal Benevento alla Spal, dalla Salernitana all’Ofi Creta. Chi è arrivato su una panchina importante – Gattuso, un imberbe Pirlo, lo stesso De Rossi, Inzaghi – ci ha rimbalzato sopra. Altri annaspano nel retropalco del gran calcio, con la critica a supporto e i risultati che li dileggiano. È una battaglia campale tra il nome che portano, e le aspettative che non riescono a soddisfare. Gilardino, che sta facendo un ottimo lavoro al Genoa, resiste. Gli altri sono ostaggi del blasone passato, vagano in zona mista con lo sguardo di Bellini e Cocciolone.
Di loro Marcello Lippi disse: «Una volta terminata la loro carriera avevano già una predisposizione naturale a fare l’allenatore. Ecco perché sono diventati allenatori di squadre importanti ottenendo anche degli ottimi risultati». Ascoltammo smarriti, chiedendoci “ma chi? Ma cosa?”.
La loro traiettoria è una biografia della nazione. L’idea che un mestiere ne valga un altro, per automatismo. Che la gavetta sia una novecentesca pretesa di dare gradualità alla vita degli altri, per principio. Che il talento sia universale, e se pure non fosse chissenefrega: la narrazione funziona per titoli. Rino, Fabio, Danielino: quando in tv si chiamano per nome il disastro è dietro l’angolo. E infatti.
Metti Pirlo, caso di scuola nel frastagliato mercato del lavoro calcistico. Giocatore di tanto talento, stiloso il giusto, sabaudo d’indole. Troppo tecnico per non tradursi in guida altrui. Fu catapultato dritto per dritto sulla panchina della Juve, per ribaltare lo stile Sarri, con i suoi spigoli, quella barba sfatta. Pirlo doveva essere un rebranding umano. L’hanno consumato espresso. Strano non abbia sfondato al Karagümrük, qualsiasi cosa sia.