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La Grande Bellezza e un certo Sarrismo hanno fatto dei danni incalcolabili al Napoli

Si è affermata l’idea (e De Laurentiis ha contribuito) che fosse l’unico calcio che meritava di essere guardato. Ovviamente non è affatto così

La Grande Bellezza e un certo Sarrismo hanno fatto dei danni incalcolabili al Napoli
Italian director Paolo Sorrentino poses on May 21, 2013 as he arrives for the screening of the film "La Grande Bellezza" (The Great Beauty) presented in Competition at the 66th edition of the Cannes Film Festival in Cannes. Cannes, one of the world's top film festivals, opened on May 15 and will climax on May 26 with awards selected by a jury headed this year by Hollywood legend Steven Spielberg. AFP PHOTO / ALBERTO PIZZOLI (Photo by ALBERTO PIZZOLI / AFP)

Premessa inevitabile

Prima di cominciare, è necessario chiarire una cosa: Maurizio Sarri non c’entra niente, ma assolutamente niente, col ragionamento e con la critica belluina che ci accingiamo a fare. Anzi, chi scrive ritiene Sarri uno dei migliori allenatori che si siano accomodati sulla panchina del Napoli negli ultimi vent’anni – qui, se volete, trovate un po’ di testimonianze dal passato. Forse il migliore, insieme a Luciano Spalletti.

Allo stesso tempo, e allo stesso modo, non è il caso di indagare e/o dileggiare il fenomeno del Sarrismo in chiave politica e aggregativa: il calcio è un gioco ma è anche un vettore sociale, quindi è appropriato (per non dire inevitabile) utilizzarlo come collante ideologico, come un mezzo per creare connessioni tra le persone. E non importa che si tratti di legami illusori: la sospensione dell’incredulità – l’escamotage attraverso cui i fruitori di un’opera fiction accettano di poter assistere ad avvenimenti inverosimili – è un carattere semiotico di grande importanza, è la base su cui si regge l’industria dell’intrattenimento. Anche da questo punto di vista il passato di chi scrive è abbastanza limpido: qui c’è un’intervista del 2017 agli admin di Sarrismo – Gioia e Rivoluzione. Una delle prime, se non la prima in assoluto, rilasciate dai fondatori della pagina/movimento.

Certo, Sarri in alcuni momenti ha cavalcato l’ascesa e l’affermazione di quel primo Sarrismo. Ha sfruttato quell’onda per occupare una precisa posizione politica, diciamo calcio-populistica, e così si è accreditato agli occhi del pubblico napoletano – una parte del pubblico napoletano. In fondo, però, non poteva fare diversamente. Non aveva molte alternative. E oggi è impossibile non provare una certa benevolenza, se non addirittura tenerezza, nei suoi confronti. Perché anche Sarri, in fondo, è rimasto schiacciato da ciò che è diventato il Sarrismo. Da una deriva giornalistica e narrativa che ha fatto dei danni enormi al Napoli. E che continua a farne oggi, sei anni dopo la fine dell’esperienza di Sarri sulla panchina azzurra.

La Grande Bellezza, ancora oggi

Flash Forward fino al 2024, ovvero fino a oggi: i giornali napoletani e nazionali, da quando Conte ha iniziato a vincere le partite come allenatore del Napoli, non fanno altro che citare La Grande Bellezza. No, purtroppo non si tratta del film di Paolo Sorrentino, piuttosto di un’etichetta – che, come tutte le etichette, in realtà è vacua, retorica, anacronistica – che la squadra azzurra si porta appiccicata addosso. E che Conte, sempre secondo le letture/ricostruzioni di questi giorni, avrebbe strappato o comunque starebbe strappando. Come? Predicando e facendo praticare al Napoli un calcio fisico, aggressivo, di sacrificio, difensivo, fatto di lanci lunghi e ripartenze. Tutti concetti lontani da quella Grande Bellezza, appunto, che ormai sarebbe parte del dna del club azzurro.

È qui, esattamente in questo punto, che si torna a Maurizio Sarri. E alla deriva giornalistico-narrativa del Sarrismo. Perché, fin dai giorni in cui si manifestò la rivoluzione tattica di Sarri sulla panchina del Napoli, si è parlato di quella squadra come dell’unica depositaria possibile del concetto di bellezza calcistica. E ovviamente si trattò e si tratta di una stupidaggine sesquipedale.

Attenzione, non stiamo dicendo che quel Napoli non giocasse bene: stiamo dicendo che, nella visione di parte della stampa, degli analisti e dei tifosi, quello di Sarri (ma in realtà si dovrebbe dire di Sarri, di Insigne, di Higuaín, di Mertens, di Koulibaly, di Jorginho, di Albiol, e ne parleremo) fosse l’unico calcio che meritava di essere guardato. L’unico esteticamente gradevole. E, di conseguenza, l’unico calcio possibile per il Napoli.

La nostalgia (e le colpe) di Aurelio De Laurentiis

Anche Aurelio De Laurentiis, e neppure sommessamente, ha contribuito ad alimentare questa convinzione così assolutistica – e quindi così assurda. Ecco una veloce timeline: è stato De Laurentiis a confermare l’intera rosa di Sarri nonostante l’arrivo e gli input di Ancelotti, così com’è stato De Laurentiis a dire che «Gattuso può riportarci alla Grande Bellezza». È stato De Laurentiis a cercare di rinnovare il contratto di Mertens, Insigne e Koulibaly fino all’attimo prima di cederli/svincolarli, così come è stato De Laurentiis a voler sostituire Spalletti con un allenatore che praticasse il 4-3-3, solo il 4-3-3, soltanto il 4-3-3. Infine, come se non bastasse, è stato De Laurentiis a prendere Mazzarri al posto di Garcia a patto che il Napoli giocasse in un certo modo – naturalmente con il 4-3-3 – e a scegliere Calzona per provare a salvare la stagione 23/24. Ci sarebbero tanti altri aneddoti da snocciolare, ma può bastare così.

No, un’altra dichiarazione di De Laurentiis va citata. Per forza. Questa: è stato De Laurentiis a dire che «Ancelotti non è fatto per il tipo di calcio che vogliono a Napoli. Il calcio, a Napoli, è un’altra cosa».

Insomma, in virtù di tutto questo si può dire che il presidente del Napoli sia sempre stato il primo nostalgico del Sarrismo. Il più grande nostalgico del Sarrismo. Al punto da citare testualmente La Grande Bellezza. Al punto che, dopo l’addio di Sarri, ha continuato a ricercarla, ha provato in tutti i modi a ricostruirla. Ed eccoli qui, nelle scelte e nelle parole di De Laurentiis ci sono i primi danni fatti dal Sarrismo e dalle sue derive, dai suoi seguaci meno scaltri: quell’idea per cui il triennio 2015-2018 fosse un’esperienza ripetibile. Ecco, non era e non è possibile. Ora vi spieghiamo perché.

Sarri ribaltato

Al suo arrivo a Napoli, nell’estate 2015, Maurizio Sarri ha conosciuto di persona Gonzalo Higuaín, Lorenzo Insigne, Dris Mertens, Kalidou Koulibaly, José Maria Callejón, Jorginho, Raul Albiol, Faouzi Ghoulam, José Manuel Reina. Tutti questi calciatori, nessuno escluso, avevano un’ottima tecnica di base, sapevano trattare benissimo la palla, soprattutto nello stretto. Tutti questi giocatori, tolti Albiol e soprattutto Koulibaly, avevano dei fisici non proprio da corazzieri. Il Sarrismo tattico – non quello politico – nacque da questa condizione di partenza, dall’intuizione per cui una rosa così composta dovesse fare un certo tipo di gioco, per poter avere dei buoni risultati. E per valorizzare le qualità degli uomini a disposizione.

Così si materializzarono i miti del possesso palla insistito, dei giochi offensivi mandati a memoria, primo tra tutti il lancio telecomandato di Insigne verso Callejón, della difesa alta con la linea a centrocampo. Anzi, in realtà a questo punto sarebbe giusto ribaltare la prospettiva. Chi ha seguito tutta la carriera di Sarri sa benissimo che il tecnico toscano ama impostare il suo lavoro a partire da concetti difensivi. Concetti difensivi molto ambiziosi, ok, ma pur sempre difensivi. La sua identità di gioco si è sempre fondata su una fase passiva di grande intensità, estremamente codificata, e su una fase offensiva che crei dei meccanismi in grado di esaltare le qualità dei calciatori a disposizione.

È il ribaltamento totale della prospettiva-Sarri, della struttura narrativa costruita intorno alla sua figura e al suo modo di intendere il calcio: il gioco delle squadre di Sarri non è bello perché offensivo, ma è offensivo – quindi godibile, secondo la percezione comune – perché le squadre di Sarri difendono in avanti, in maniera intensa e aggressiva. Dopo, ma appunto solo dopo, il gioco delle squadre di Sarri è bello da vedere perché la manovra d’attacco delle sue squadre si sviluppa attraverso uno stile e dei sincronismi che aderiscono perfettamente alla qualità del materiale umano a disposizione.

Le parole di Sarri, le idee di Spalletti

Questa piccola digressione teorica mostra come e perché l’esperienza tattica del Sarrismo non fosse più ripetibile. Molto semplicemente: il Napoli, andando avanti, ha cambiato giocatori, ed era inevitabile. Pian piano ha salutato tutti i reduci del triennio 2015-2018. E infatti, se guardiamo alla squadra che ha vinto lo scudetto 2023, gli unici sopravvissuti dell’era-Sarri erano Mário Rui e Zielinski. È come se anche De Laurentiis, col tempo, si fosse arreso all’evidenza. All’idea che non si può restare fermi al passato, cercando ossessivamente di tenerlo vivo. O di ricostruirlo.

Anche Sarri, in qualche modo, sa benissimo che è così. Qualche giorno fa, in un’intervista-fiume al Corriere della Sera, l’ex allenatore del Napoli ha detto: «sarò sempre grato a De Laurentiis per avermi fatto allenare la squadra del mio cuore. Con lui il Napoli è cresciuto tanto». È vero che Sarri si è sempre professato tifoso del Napoli, ma è chiaro che in queste parole – e anche in quelle dette su Higuaín, nella stessa intervista – c’è una presa d’atto rispetto al suo passato: il Napoli che gli era stato affidato era una squadra perfetta per certe idee. Per le sue idee.

Idee che, e qui veniamo a un altro punto nodale del discorso, erano e sono lontane rispetto a quelle di Luciano Spalletti. Chi pensa al Napoli campione d’Italia come a una squadra figlia del Sarrismo commette un errore di superficialità. Perché guarda solo al 4-3-3, al modulo di gioco adoperato dall’attuale ct della Nazionale, e alla sensazione – vera, ci mancherebbe – che la squadra azzurra costruisse il gioco dal basso in maniera sofisticata, efficace. Anche piacevole, perché no. Per il resto, però, il Napoli 2015-2018 e il Napoli 2022/23 sono state due squadre diversissime tra loro. La presenza di Osimhen e Kvaratskhelia, due maestri nell’attacco della profondità, ha reso il gioco più verticale, più diretto. Così come Anguissa al posto di Allan, Kim Min-jae al posto di Koulibaly e Di Lorenzo al posto di Hysaj hanno dato più fisicità al pressing. Per non parlare delle enormi differenze tra Lobotka e Jorginho.

Che cos’è, allora, la Grande Bellezza? È un bias cognitivo

Siamo ormai arrivati a dama. E quindi non possiamo che porre alcune domande, ovviamente retoriche. Eccole: visto che il Sarrismo non esiste più da tantissimo tempo, che senso ha discuterne e/o inseguirlo ancora? Visto che nel frattempo il Napoli ha vinto lo scudetto giocando in un modo diverso, perché la squadra azzurra e (alcuni di) coloro che ne scrivono continuano a parlare di Grande Bellezza? Il Napoli di Spalletti incarnava la Grande Bellezza più o meno di quello di Sarri? Allo stesso modo? Che cos’è, allora, la Grande Bellezza? E perché quella di Conte non è e non potrebbe essere una Grande Bellezza?

Ormai è chiaro: stiamo rifacendo il discorso sul 4-3-3 – ne abbiamo parlato qui, pochi giorni fa – e sul fatto che Conte potrebbe/dovrebbe cambiare modulo di gioco. Insomma, siamo di fronte a un vero e proprio bias cognitivo per cui la bellezza calcistica abbia una e una sola forma: quella che passa dal 4-3-3, del possesso palla intensivo, dal gioco corto, da un certo tipo di meccanismi offensivi. E proprio la nascita e la proliferazione di questo bias è il danno più grande fatto dal Sarrismo, dalle sue derive.

Ed è un danno incalcolabile, per tanti motivi. Intanto perché, come abbiamo già detto e visto, ha avuto il suo impatto anche su Aurelio De Laurentiis – il presidente forse ora si è ravveduto, chissà, ma nel frattempo ha fatto diversi errori nel nome di questa sua nostalgia. Il vero problema, però, sta nel fatto che questo bias ha portato alla nascita di una fede assolutistica. E quindi all’idea per cui il mondo si divida in buoni e cattivi sulla base di un certo tipo di bel gioco, alla convinzione che non ci siano sfumature né possibilità di ibridazione. Che l’unica strada possibile, per gli infedeli, sia la conversione.

Pep Guardiola

Chi parte da certi preconcetti, chi soffre del bias di cui abbiamo parlato finora, fa fatica ad ammettere – o peggio ancora: non vuole ammettere, e allora non lo fa – che anche un altro tipo di calcio può essere appagante alla vista. E poi, ancora peggio: si chiude a riccio, non accetta né tantomeno riconosce che un gol fatto grazie a un lancio lungo del portiere, un lancio che pesca direttamente l’attaccante, possa essere bello. Non abbiamo fatto un esempio a caso: abbiamo citato un gioco classico del Manchester City di Pep Guardiola. Un meccanismo che Ederson e Haaland cercano continuamente. E che funziona.

Cosa c’entra Pep Guardiola? Semplice: se perfino lui, l’allenatore che più di ogni altro ha legato i suoi successi alla teoria utopica del bel gioco, ha lavorato e lavora su questo tipo di soluzioni, perché tutti gli altri allenatori del mondo non dovrebbero farlo? E perché gli allenatori del Napoli, tutti nessuno escluso, dovrebbero per forza esercitare La Grande Bellezza di cui abbiamo parlato finora, quella e nessun’altra?

Queste altre domande retoriche andrebbero poste a certi giornalisti. A coloro che sostengono la narrazione secondo cui Conte sta cambiando il dna del Napoli, passando dalla Grande Bellezza a qualcos’altro. A qualcosa di diverso, di inevitabilmente meno bello. Forse anche chi scrive certe cose soffre del bias cognitivo derivato dal Sarrismo, non approfondisce, si limita a surfare e a soffiare sul sentimento popolare. Su pulsioni nostalgiche che non hanno ragioni di esistere. Al punto da mettere preventivamente in discussione o da giudicare, dal punto di vista estetico e non solo, le scelte di Antonio Conte. Come se l’estetica non fosse un fatto soggettivo. Come se la classifica di Serie A e il Napoli al primo post per gol segnati non fossero dei dati oggettivi.

Conclusioni

C’è poi un altro discorso da fare, molto più prosaico – cioè tattico – e molto meno sociologico: Antonio Conte non sta cancellando nessun codice genetico interno al Napoli, reale o illusorio che sia. Lo sta rinnovando, lo sta allargando, sta creando un Napoli in grado di giocare in molti modi diversi. Di tessere lunghe azioni palla al piede – come quella che ha portato al gol di Kvaratskhelia contro il Cagliari – ma anche di compattarsi in difesa col baricentro basso, di risalire il campo con un solo passaggio verso Lukaku isolato in avanti, di adottare un pressing aggressivo con i reparti strettissimi. Insomma, l’allenatore del Napoli vuole che il Napoli sia una squadra che sappia fare tante cose. Sta cercando un altro tipo di Grande Bellezza: quella che rimanda alla varietà, che contempla l’ibridazione.

Molto banalmente, si potrebbe dire che la Grande Bellezza immaginata e perseguita da Conte sia fatta proprio così: di tante cose diverse, anche distanti tra loro. Ottenerla non sarà un lavoro facile, non è detto che riesca. Ma è un tentativo di andare avanti. Di aggiornarsi. Di guardare al futuro, non al passato. Chi fa fatica a comprenderlo, non vuole farlo oppure non ha gli strumenti per farlo. E allora si mette a ripescare etichette facili. Etichette vacue, retoriche, anacronistiche, come tutte le etichette.

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