ilNapolista

La vera mentalità ultras è imprenditoriale: “tifiamo per soldi, della squadra non ce ne frega niente”

L’inchiesta fa emergere (per l’ennesima volta) la realtà: fa tenerezza il tifoso romantico che ancora crede al “dodicesimo uomo in campo”

La vera mentalità ultras è imprenditoriale: “tifiamo per soldi, della squadra non ce ne frega niente”
Mg Milano 26/10/2022 - Champions League / Inter-Viktoria Plzen / foto Matteo Gribaudi/Image Sport nella foto: tifosi Inter

La vera mentalità Ultras è imprenditoriale: “tifiamo per soldi, della squadra non ce ne frega niente”

Dovevano arrivare gli ultras, in viva voce intercettata, a farci la lezione di economia aziendale. A noi poveri tifosi dilettanti, oppressi dal senso di colpa per non essere andati in trasferta a Gela (ogni tifoso ha una Gela nell’armadio, non si scappa, è un peccato originale). A noi accusati di “occasionalismo” perlopiù borghese, collinare, per non aver fatto l’abbonamento in Serie C da mettere in curriculum e camparci moralmente di rendita nei secoli dei secoli. Eccola la tanto decantata “mentalità” ultras: la mentalità imprenditoriale. Il professionismo. Le curve: la Bocconi del calcio.

Riprendiamo testuale dai nastri della Guardia di Finanza delle intercettazioni degli ultras milanesi: “Non ce ne importa proprio nulla della campagna acquisti, non mi importa nulla della squadra, non faccio le cose per lo striscione, non me ne frega proprio niente, nessuno lavora per il popolo. Volete andare in curva a cantare, a me non interessa, se io lo faccio deve esserci un rientro economico”.

I club sudditi degli ultras

Tombola. I capi delle curve che entrano nelle società di calcio senza capitale azionario. Infiltrati a sportellate, coi ricatti più o meno espliciti, le contestazioni contundenti, e il dialogo alla pari. Dirigenti del tifo che dettano le condizioni ai dirigenti di club “sudditi” (parola non usata a casaccio dal procuratore capo di Milano impossibilito ad indagarli come complici). Con la ndrangheta come socio occulto e nemmeno la quinta del cliché geografico a velarne le vergogne: Milan, Inter, c’era già passata la Juve, il grande capitalismo pallonaro italiano, mica l’Aspromonte.

Sono proprio i tifosi “basici” – lo diciamo con affetto… i tifosi naif, quelli che ancora urlano e si disperano per un gol o un fuorigioco – che dovrebbero registrare l’imbarazzante e scenografica verità che le indagini milanesi ci sbattono in faccia, e farsene carico. Della squadra non gli importa. Il risultato atteso è un “obiettivo” finanziario: la quota mercato, le tessere gratuite, il “libero mercato” sugli spalti. Da Adam Smith alla ‘ndrina dei Bellocco, il vero “campo largo”.

Vincere o perdere sono concetti persino un po’ teneri. Come spiegava qualche giorno fa Gerry Cardinale, “c’è una strategia molto più grande di quella che si gioca ogni settimana in Italia, ovvero vincere le partite”. Vale per la sedicente “grande” industria calcio, e per chi fa impresa (spesso illegale) sfruttandone i clienti, il pubblico. La grammatica da manager è la stessa.

La realtà è un posto freddo, grigio, triste: sono affari. Peggio: “Nessuno lavora per il popolo”. Pensa in nome del popolo quante idiozie tocca sorbirsi. E’ lavoro, business borderline, con lo sport sullo sfondo a garantire l’illusione: il prato verde, il sudore, la palla che rotola e la retorica vischiosa e puzzolente del “dodicesimo uomo in campo”. Il “calcio è dei tifosi”, certo: ma mica di quelli romantici. Il calcio “appartiene”, proprio come un asset, ai professionisti. Anche a quelli che passano da San Siro a San Vittore senza troppi problemi: lo stadio e il carcere a Milano (e in Italia) sono sempre stati nello stesso quartiere.

ilnapolista © riproduzione riservata