Il Napoli di Antonio Conte è in perfetta antitesi con il cuore pulsante della città. Siamo passati dalla grande bellezza alla solida concretezza.
Il Napoli di Conte non fa vendere presepi, non alimenta il falso mito dell’unicità di Napoli
Napoli è scontenta del Napoli di Conte. Il Napoli di Antonio Conte è in perfetta antitesi con il cuore pulsante della città. Il Napoli di Antonio Conte non emoziona. Vince con mezzo rigore (dicesi mezzo rigore lo sforzo offensivo prodotto per ottenerlo, non se ne discute l’evidenza fallosa). Il Napoli di Conte non aiuta l’economia cittadina a sopravvivere. Non fa vendere presepi. Non si vendono pizze, e nemmeno maglie pezzotte. Non si presta a parodie per canzonette e pietosi schetch televisivi. Insomma non è “milleculure”. Nella continua autocelebrazione di se stessa questo Napoli di Antonio Conte avrà lo stesso spazio emozionale che ha il Napoli di Albertino Bigon che ha vinto il secondo scudetto, ma a cui Giancarlo Corradini dedicava la canzone Pietre di Gian Pieretti. Tanto per descrivere il clima dell’epoca.
Il Napoli di Antonio Conte è un elogio di bellezze altre. Quelle solide. Quelle concrete. Quelle che quando la giornata non è perfetta comunque trovano un modo per portare a casa il risultato. Una tipologia di bellezza che non sempre può essere colta da chi predilige il superfluo e non il necessario. Non ci sono scuse. Non c’è pioggia. Non c’è erba tagliata male. Non c’è pallone sgonfio. Non ci sono Orsati. Non ci sono ammonizioni. C’è il campo. C’è il lavoro. Non c’è altro. Questa masterclass di professionismo, che per chi scrive non è legata ai risultati, ma ad un qualcosa di molto più duraturo ed utile, verrà compresa, ovvero sarà una cattedrale nel deserto?
C’è un abisso tra il Napoli di Conte e i Napoli del passato
In città c’è una una sottile, sottilissima insoddisfazione, quasi impalpabile. Per buona parte della tifoseria a questo Napoli manca qualcosa. Non diverte. Non domina. Anni ed anni di distorta narrazione del calcio hanno fuorviato il concetto di concretezza. È qualcosa di profondamente radicato nell’essere napoletani non riuscire a cogliere altre bellezze. Ma solo quelle evidenti, quelle volgari. Quelle sgamate. Del resto già Gino Palumbo criticava il catenaccio di Nereo Rocco, rintuzzato da Gianni Brera. Preistoria, ma che dimostra in maniera plastica, quanto i napoletani non sappiano apprezzare altre bellezze al di fuori della propria. Ad ingiusta ragione si ritiene Napoli la città più bella del mondo, che si vende come la più felice. Napolicentrismi che dicono tanto circa la composizione del tessuto connettivo cittadino.
Diffidiamo che questo tipo di percorso possa far breccia in cuori e menti plasmate a pizza e crocchè. Del resto c’è un abisso tra i Napoli del passato (compreso quello di Spalletti) e questo. Semplicemente perché è presente un pezzo che è sempre mancato: la forza mentale. Solo una squadra figlia del proprio allenatore ha la forza mentale di vincere su un campo storicamente e contemporaneamente ostico. La Juve di Motta non ha sfondato ad Empoli. Anzi stava per essere beffata nel finale. Il lavoro dell’allenatore sta mostrando i suoi frutti. Vedere Politano pensare da terzino (si terzino), che corre in aiuto del capitano ammonito che temporeggia, da l’esatta dimensione della rivoluzione copernicana in atto. Sarà importante coltivare ed irrorare il lavoro dell’allenatore. Passando cosi dalla grande bellezza alla solida concretezza.
Con buona pace dei napoletani.