Questo Napoli è bello perché rispecchia la vita, come Sartre definiva il calcio. Napoli non ceda al populismo estetico del sedicente bel gioco
Il Napoli di Antonio Conte è bello. E nel dirlo, nello scriverlo, dobbiamo riappropriarci di questo termine che affonda le radici negli albori stessi della civiltà occidentale. Il concetto di bello è sempre stato legato, nel mondo greco e in quello latino, non solo all’aspetto esteriore ma anche a quello interiore. Non si dava estetica senza etica. Questo Napoli allora è autenticamente bello perché, oltre alle trame di gioco, traduce nel rettangolo verde così tanti aspetti dell’animo umano: l’intelligenza, la sofferenza, l’adattamento, la gestione dei momenti, la fede.
La bellezza del calcio sta nel fatto che questo è metafora della vita, come diceva Sartre. E la vita è composta da tanti aspetti differenti. Tutto il dibattito sul “bel gioco” è in questo senso profondamente sballato, sintomo di una narrazione in cui il football, svuotato dei suoi aspetti simbolici, identitari, umani, reso ormai intrattenimento, calcio-spettacolo per la gioia dei broadcaster e delle pay tv, ha abdicato alla sua dimensione di fenomeno sociale, culturale, umano per venire via via relegato ai soli fatti di campo. Con i calciatori, sempre più calciatori e sempre meno uomini, resi pedine di allenatori demiurghi e maniaci di controllo, i quali vorrebbero telecomandarli in campo con degli auricolari come nella Nfl, per citare la proposta di Nagelsmann di tempo fa. Più si muoveranno perfettamente, senza intoppi ed imprevisti, più sarà “bello” il gioco.
Diventando il calcio un’unica grande lavagna tattica, si sono diffuse ideologie ultra specialistiche che hanno enfatizzato all’inverosimile l’aspetto scientifico del pallone, riponendo in soffitta l’aspetto umano. E in questo i padroni del linguaggio, e della narrazione, ci hanno fatto credere che la bellezza risiedesse nel cosiddetto calcio propositivo, in fitte reti di passaggi, nel calcio all’olandese o alla catalana, nel dominio del gioco. Pornografia e masturbazione applicate allo sport. Tutti coloro che non assecondavano una simile deriva venivano bollati come trogloditi, passatisti, conservatori, incapaci di adattarsi ai tempi che cambiavano e al nuovo corso pallonaro. E noi abbiamo accettato questa narrazione woke applicata al pallone.
Vedendo invece la partita di ieri di Anguissa e di Olivera, di Kvaratskhelia e di McTominay e di Lukaku, ma in realtà del Napoli tutto, si capisce quanto la bellezza di questo sport stia nel fatto che è giocato da uomini, e nel fatto che quegli uomini possano trasferire sul campo più dimensioni (calcistiche e psicologiche). Testa e cuore, qualità e muscoli, grinta e intelligenza, disciplina e capacità di gestione; tecnica e tattica, atletismo e personalità. Singoli, perfettamente inseriti in un collettivo, che dispensano giocate ma si sacrificano per i compagni. Tutto legato insieme. Questo Napoli è bello perché nel campo riesce ad unire il gioco – che raggiunge picchi di intensità e qualità notevoli – alla lettura dei momenti, alla sofferenza, al sacrificio, fondendo l’estetica con l’etica.
Questo Napoli è bello perché rispecchia la vita, ed è una grande manifestazione umana sul campo di calcio. Con buona pace dei nerd del pallone: gente che non capisce nulla di calcio, perché non capisce nulla di vita.
Napoli su tutte, allora, non può e non deve cedere al populismo estetico del sedicente bel gioco, al marketing del sarrismo (essendo stato poi Sarri estremamente adattabile, basti vedere il gioco espresso al Chelsea, alla Juventus, alla Lazio, e avendo rinnegato lui stesso il “sarrismo”), alla narrazione fritta della grande bellezza napoletana che sarebbe l’opposto, nobile ma povero, delle ideologie efficientiste del nord – vincere è l’unica cosa che conta. Questa dimensione macchiettistica è proprio ciò a cui molti vorrebbero ridurre la città, confinandola nel suo eterno auto compiacimento e vittimismo.
Napoli è troppo più grande di così, e troppe ne ha viste, per cedere all’ideologia alla moda del bel calcio. È terra di umanità e di genio, e anche per questo non si è mai votata ai dogmatismi tipici di altri popoli e di altri luoghi. Napoli poi, nel pallone, è stata terra di elezione e di adozione del profeta di questo gioco, Diego Armando Maradona, e non venitemi a dire che quel Napoli o l’Argentina dello stesso Diego giocassero “bene” – per come viene inteso oggi e per come a quei tempi potevano fare l’Olanda, o il Milan di Sacchi. Con Maradona si è scritta la storia e si è scritto il mito ma perché si è vinto, si è voluto vincere. Ed è stata una bellezza infinita perché è stata un’umanità infinita.
I profeti del bel gioco, progressisti talebani prestati al pallone, sono figli di una dottrina totalitaria – valida sempre e ovunque, universale e incontestabile – che ha livellato il calcio, facendoci credere che per andare avanti tutti avrebbero dovuto giocare allo stesso modo, e che quel modo prevedesse non certo l’adattamento o la gestione delle fasi, figuriamoci la difesa quando ce n’era bisogno (vade retro!) bensì il dominio del campo e il possesso del pallone, sempre e comunque. Tutto ciò, quegli stessi apprendisti stregoni, lo hanno inciso sulle tavole della legge autoproclamandolo “bel gioco”.
Un dogma, nulla di più, che già non fa per gli italiani, i quali devono i loro successi e trionfi allo spirito di adattamento, all’eclettismo, all’ingegno; figuriamoci se fa per i napoletani, orgogliosamente antidogmatici da sempre, abituati a ridere di chi, nella commedia della vita, ha quella cattiva abitudine di mantenere incrollabili convinzioni.
È giunto il momento allora di cambiare il linguaggio, perché il linguaggio modella il mondo e forma il pensiero. E se proprio vogliamo parlare di “bel gioco”, impariamo almeno prima a ridefinire – nel senso degli antichi – il concetto di ‘bello’.
direttore della rivista Contrasti