ilNapolista

Parthenope, ovvero alla fine Sorrentino ce l’ha fatta a girare il suo “Ferito a morte”

La Capria è fondamentale per chi ha l’ambizione di raccontare Napoli essendo andato via. Stavolta è stato decisamente meno democristiano. La chicca di Angelo Manna

Parthenope, ovvero alla fine Sorrentino ce l’ha fatta a girare il suo “Ferito a morte”
foto di Gianni Fiorito

Parthenope, ovvero alla fine Sorrentino ce l’ha fatta a girare il suo “Ferito a morte”

Alla fine ce l’ha fatta Sorrentino a girare una sorta di trasposizione cinematografica di “Ferito a morte”. Era il suo cruccio. Forse lo è ancora, chissà. Ma “Parthenope” rappresenta probabilmente la massima estensione raggiungibile. Più di così non si può andare. Se sei di Napoli, e la tua ambizione è quella di raccontarla, descriverla, mandarla in scena, La Capria e “Ferito a morte” sono un passaggio ineludibile. Obbligatorio se sei uno – come tantissimi – che a un certo punto da Napoli se n’è andato (come Fabietto ne “È stata la mano di Dio”, come Gaetano in “Ricomincio da tre”, come tantissimi altri). E se non sei parte di questo leghismo-neoborbonismo che ai tempi era per fortuna solo strisciante. Oggi ahinoi è debordato.

Sorrentino ha sempre avuto La Capria in testa. Comprensibilmente. Da Jep Gambardella l’uomo che aveva il potere di far fallire le feste romane e che aveva scritto un solo romanzo di successo. A volte a uno scoglio insormontabile ci si approccia con insolenza (termine che è usato nel film, da Isabella Ferrari nel dialogo con Parthenope), nel tentativo di sminuire l’ostacolo. Ma La Capria era sempre là. Lui, “Ferito a morte”. Massimo De Luca. Il bar Middleton. Palazzo Donn’Anna. E allora Sorrentino ha raccontato quell’atmosfera. La Napoli che ha il mare in bocca. Che poi è la Napoli dei ricchi. Perché a Napoli il mare è nascosto. Evitiamo la scontata citazione di Anna Maria Ortese. Napoli non finisce naturalmente a mare come Marsiglia, come Genova. A Napoli devi scavalcare per arrivare a mare.

“Parthenope” fuma assai

L’atmosfera è quella di “Ferito a morte”. Anche il finale. Anche la scelta decisiva di Parthenope. Che fuma, fuma sempre. È sempre stata adulta, per usare il metro di “This must be the place”. Stavolta Sorrentino è meno democristiano su Napoli (non solo per il monologo di Luisa Ranieri). Lo fa a modo suo, ma lo fa. L’ultima frase, sui titoli di coda, fa sorridere: “E comunque Dio non ama il mare”. Messa lì, alla fine, come quelli cominciano a scappare prima di sputare la frase che fa infuriare l’interlocutore. Anche il figlio di Silvio Orlando potrebbe essere una metafora fin troppo chiara della città. Ma quella scena la segniamo col circoletto rosso per un altro motivo. Contiene una chicca: la tv che manda in onda “Il tormentone” trasmissione di punta (diciamo cult) degli anni Settanta-Ottanta di una storica emittente privata napoletana (Canale 21, che era di proprietà di Achille Lauro) che aveva come protagonista Angelo Manna un antesignano di Beppe Grillo, un irregolare del Movimento Sociale. Era un one man show col linguaggio del popolo, con tempi televisivi e scenici notevoli.

La sala era piena. Persone di tutte le età. Peppe Lanzetta in sala. E all’esterno una signora anziana coi capelli turchini che salutava da diva gli spettatori che la riconoscevano. Era una delle anziane che nel film accarezzava la mano del vescovo. Sorrentino in purezza, anche per strada.

ilnapolista © riproduzione riservata