Un lunga lettera del fu “Imperatore di Milano” a The Players’ Tribune: “Sono “scappato” dall’Inter perché volevo vivere. Ho pianto sulla spalla di Moratti. Ma ci ricascavo sempre”
Un tempo era soprannominato l'”Imperatore”, oggi Adriano vive nell’anonimato della sua favela. Un tempo il suo sinistro terrorizzava difese e portiere, oggi il suo fisico non è esattamente quello di un atleta di alto livello. Ad un certo punto nella sua mente qualcosa si è rotto (oltre ai diversi infortuni rimediati). Alla fine, prendono in prestito le parole di As, “l’impero che stava costruendo in Italia finì per formarsi a Vila Cruzeiro, lontano dal mondo“. Il brasiliano ha scritto una lettere a The Players’ Tribune.
Adriano: «Sono “scappato” dall’Inter perché volevo vivere»
Di seguito alcuni estratti della lettera scritta da Adriano:
“Tu lo sai cos’è essere una promessa? Io sì. Compreso una promessa mancata. Il più grande spreco del calcio: io. Mi piace questa parola, spreco. Non solo perché suona bene, ma perché mi piace un sacco sprecare la vita. Sto bene così, in un frenetico spreco. Mi piace questo stigma“.
“Sì, bevo tutti i giorni, spesso anche nei giorni in cui non bevo. Perché una persona come me arriva a bere quasi tutti i giorni? Perché non è facile essere una promessa rimasta incompiuta. Soprattutto alla mia età. Mi chiamano l’Imperatore. Immagina un po’. Uno che è venuto dalla favela per essere chiamato Imperatore in Europa“.
“Vivo a Barra da Tijuca da tanti anni. Ma il mio ombelico è radicato nella favela. Vila Cruzeiro. Complexo da Penha. Ho giocato più a calcio qui che a San Siro. Qui mio padre era davvero felice. Almir Leite Ribeiro. Lo chiamavano Mirinho, così lo conoscevano tutti. Uno di grande rispetto. Il sabato si svegliava presto, preparava il suo zainetto e voleva subito andare al campo. «Su, figliolo. Ti aspetto. Andiamo che oggi sarà tosta la partita», diceva. Certo. Tornavo in vacanza dall’Italia e non facevo altro. Prendevo il taxi dall’aeroporto e gli dicevo di andare subito al Cruzeiro. Non passavo nemmeno da mia madre prima”.
“È su questo campo che ho imparato a bere. Mio padre impazziva. Non sopportava vedere nessuno con un bicchiere in mano, figuriamoci i ragazzini. Mi ricordo la prima volta che mi ha beccato con un bicchiere in mano. Avevo 14 anni e la favela era in festa. C’era un sacco di gente, un’allegria che travolgeva tutti, tipica del calcio di quartiere. Quando ho visto tutti i ragazzi con qualcosa in mano, ridendo e scherzando, ho pensato ‘aaaahhhh’. Non ho resistito, ho preso un bicchiere di plastica e l’ho riempito di birra. Quella schiuma amara e leggera che scendeva giù per la gola per la prima volta aveva un sapore speciale. Davanti a me si apriva un nuovo mondo di “divertimento”. Mia madre era alla festa e ha visto tutto. Però non ha detto nulla. Mio padre invece… Porca troia. Quando mi ha visto col bicchiere in mano, ha attraversato tutto il campo con quel passo veloce di chi non può perdere l’autobus. «Smetilla!» ha gridato. Mi ha strappato il bicchiere di mano e l’ha buttato per terra. «Non ti ho cresciuto così, figliolo», ha detto“.
“Mirinho era un leader della Vila Cruzeiro. Tutti lo rispettavano. E lui dava l’esempio. Il calcio era la sua passione. Una delle sue missioni era tenere i ragazzi lontani dai guai. Cercava sempre di portarli verso il calcio. Non voleva nessuno in giro a fare un cazzo. E nemmeno che saltassero la scuola. Suo padre beveva molto. Lui sì che era un alcolizzato. È morto per questo, tra l’altro. Mi manca tantissimo…”
“La morte di mio padre ha cambiato la mia vita per sempre. Ancora oggi è una cosa che non sono riuscito a superare. E pensa un po’ come sono le cose, tutto è iniziato qui, nella comunità che per me significa così tanto. La Vila Cruzeiro è pericolosa da morire. Se mi mettessi a raccontare tutti quelli che non ci sono più, staremmo qui a parlare per giorni e giorni… Che Dio li benedica“.
“Mio padre ha preso una pallottola in testa a una festa alla Cruzeiro. Una pallottola vagante. Lui non c’entrava niente con la rissa. Il proiettile gli è entrato in fronte ed è rimasto fermo nella nuca. I medici non potevano rimuoverlo. Da quel momento, la vita della mia famiglia non è stata più la stessa. Mio padre ha cominciato ad avere convulsioni sempre più frequenti. Avevo dieci anni quando mio padre è stato colpito. Sono cresciuto convivendo con le sue crisi. E per questo Mirinho non ha più potuto lavorare. Tutta la responsabilità di mantenere la famiglia è caduta sulle spalle di mia madre. E lei cosa ha fatto? Si è arrangiata“.
“Hai visto quanta gente c’è in giro? E il rumore? Cavolo, la favela è davvero un altro mondo. Qui ci conosciamo tutti. Certo, una casa attaccata all’altra, giusto? Questa è una delle cose che mi ha colpito di più quando mi sono trasferito in Europa. Le strade sono silenziose. La gente non si saluta. Ognuno per conto suo. Il primo Natale che ho passato a Milano è stato pesante“.
“Quando sono andato all’Inter il contraccolpo è stato fortissimo durante il primo inverno. È arrivato Natale e io ero da solo nel mio appartamento. Faceva un freddo cane a Milano. Sentivo quella depressione che arriva nei mesi gelidi e grigi del nord Italia. Seedorf e sua moglie hanno organizzato una cena per gli amici più intimi e mi hanno invitato. Era tutto bellissimo e buono, ma la verità è che volevo essere a Rio de Janeiro.
Non sono rimasto molto tempo. Mi sono scusato, li ho salutati velocemente e sono tornato al mio appartamento. Poi ho chiamato a casa. «Ciao mamma. Buon Natale», ho detto. «Figlio mio! Mi manchi tantissimo. Buon Natale anche a te. Ci sono tutti qui, manchi solo tu», ha risposto lei. Mi sono messo a piangere subito. «Tutto bene, figlio mio?», mi ha chiesto mia madre. «Sì, sì. Sono appena tornato dalla casa di un amico», le ho detto. «Ah, allora hai già cenato? Qui la mamma sta ancora sistemando la tavola», ha risposto, «ci saranno anche delle pasteis oggi». Cavolo, quello era un colpo basso. Le pasteis della nonna sono le migliori al mondo. Mi sono messo a piangere sul serio. Di brutto. Ho pure cominciato a singhiozzare. «Va bene, mamma. Goditela, allora. Buona cena a tutti. Non ti preoccupare, qui è tutto a posto». Ero a pezzi. Ho preso una bottiglia di vodka. Senza esagerare. Me la sono scolata tutta da solo. Mi sono riempito di vodka. Ho pianto tutta la notte“.
“Quando sono “scappato” dall’Inter e me ne sono andato dall’Italia, sono venuto a nascondermi qui”. Nessuno mi ha trovato. La stampa italiana era impazzita. La polizia di Rio ha perfino fatto un’operazione per “salvarmi”. Dicevano che ero stato rapito. Ma dai, scherzi? Figurati se qualcuno mi farebbe del male qui, proprio a me che sono cresciuto nella favela“.
“Qui, quelli di fuori non hanno idea di cosa faccio. Questo era il loro problema. Non capivano perché fossi tornato in favela. Non era per l’alcol, né per le donne, tanto meno per la droga. Era per la libertà. Era perché volevo un po’ di pace. Volevo vivere. Volevo essere di nuovo umano. Solo per un po’. Ho provato a fare quello che volevano loro. Ho cercato di fare accordi con Roberto Mancini. Mi sono impegnato con José Mourinho. Ho pianto sulla spalla di Moratti. Ma non riuscivo a fare quello che loro mi chiedevano. Stavo bene per qualche settimana, non bevevo manco un goccio, mi spaccavo di allenamenti, ma poi c’era sempre una ricaduta. E tutti mi criticavano. Non ce la facevo più“.