Repubblica: «A 18 anni volevo fondare un partito polito, oggi quell’idea l’ho trasferita nel mio staff di persone affini ma complementari con i miei limiti»
Repubblica ha intervistato Francesco Farioli, il tecnico italiano dell‘Ajax che sfiderà domani la Lazio di Baroni.
Serve un tocco di italianismo?
«Qui entriamo nel campo degli stereotipi. Sono malato di tattica? Sì. Speculatore? No. La definizione di italianista mi sfugge. E penso al ruolo con una visione un po’ più ampia».
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Vale a dire?
«Prima andavo ai colloqui e per il 95% parlavo di tattica e metodologie di allenamento, oggi mi rendo conto di quanto importante sia la gestione delle risorse umane. L’allenatore è l’ingranaggio centrale, collega giocatori, personale, dirigenti e rappresenta il club davanti ai tifosi: è un facilitatore di processi, deve centralizzare le informazioni e delegare le competenze».
A 18 anni voleva fondare un partito. Com’è la storia del partito?
«Mi interessavano cosa pubblica e bene comune e non mi faceva dormire il pensiero che l’Italia non mostrasse il suo volto migliore. Fondare un partito di persone perbene era il mio sogno, forse la mia utopia, ma al massimo mi proposero dei compromessi».
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Le ambizioni politiche le ha messe da parte?
«L’idea di partito l’ho trasferita nel mio staff di persone affini ma complementari con i miei limiti: ci sono due spagnoli, un italiano, un inglese, un turco e un finlandese».
Si può fare politica dalla panchina?
«Io ragiono come se in un posto stessi per sempre, anche se per sempre non sarà. Avrei fatto lo stesso in politica, diciamo che è un approccio poco populista. Non vivo con l’incubo dell’esonero, ho fatto battaglie per ridipingere gli spogliatoi, far assumere un nutrizionista, che arricchirà il club anche quando non ci sarò più e non per avere l’ala che magari mi avrebbe fatto vincere l’ultima partita. L’obiettivo è lasciare il posto di lavoro migliore di come l’ho trovato. E so sistemare casini».