Riflessione del quotidiano sportivo francese: “non è che funzionava meglio prima? Ora si discute di contaminazioni infinitesimali”
“E se l’antidoping funzionasse meglio prima?”. Se lo chiede L’Equipe ripartendo dall’inchiesta del New York Times sulla Wada e i nuotatori cinesi (che ovviamente in Italia non s’è filato di striscio quasi nessuno).
“Ricordate i bei vecchi tempi degli steroidi di Ben Johnson alle Olimpiadi di Seul del 1988, dell’Epo al Tour di Festina e Lance Armstrong, del Thg di Marion Jones… – continua L’Equipe – Solo colpevoli prestigiosi per prodotti pesanti in dosi forti, spesso abbinati a confessioni più o meno spontanee. Mentre negli ultimi mesi quasi tutti i pesci grossi caduti nella rete antidoping (Siner, Swiatek, Thibus, i nuotatori cinesi, ecc.) hanno lottato contro la contaminazione omeopatica senza consenso”.
L’Equipe ne ha parlato direttamente con Olivier Niggli, direttore generale dell’Agenzia mondiale antidoping (la Wada, appunto). Lui dice che “gli strumenti di controllo sono diventati troppo precisi”. “Potremmo aver creato il problema che stiamo affrontando perché i laboratori sono migliorati. Ne rilevano quantità infinitesimali”.
Ma a questo si aggiunge anche “una deplorevole guerra di polizia”, tra agenzie stesse. Per esempio la Wada ha accusato il direttore delle indagini dell’Agenzia francese antidoping (Afld) per possibile traffico di prodotti dopanti, mentre la stessa Wada ha sporto denuncia per diffamazione contro l’agenzia americana (Usada) per il forse-caso di doping cinese nel nuoto”.
E “come se il nuovo disordine mondiale attaccasse anche le cause più nobili – continua L’Equipe – L’Usada sogna una pax americana antidoping che si estenda a tutti i paesi e a tutti gli sport, con la strana eccezione delle sue principali leghe professionistiche e universitarie (Nfl, Nba, Mlb, Ncaa) poste al di sopra della legge… un gioco di ladri e poliziotti, non c’è bisogno di uno strumento di altissima precisione per determinare chi trae vantaggio dalla confusione”.