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Quando Agroppi diede del prete a Spalletti: «Voleva spiegare il calcio a Totti»

La sua intervista a Repubblica poco prima dello scudetto del Napoli. «Soffro di depressione e ancora mi dicono “ma perché stai così? Hai giocato in Nazionale!”»

Quando Agroppi diede del prete a Spalletti: «Voleva spiegare il calcio a Totti»
Screen da YouTube

Il quotidiano La Repubblica ha oggi ricordato – ripubblicandola – l’intervista ad Agroppi risalente a febbraio 2023. Un’intervista lunga e piena di spunti interessanti che fanno capire molto del pensiero calcistico e dell’uomo Agroppi in genere.

Agroppi diceva: «Non guardo più il calcio, le seconde voci sono insopportabili»

Di seguito un estratto dell’intervista:

È un po’ che non la vediamo, che sta facendo?

«Guardo la televisione, faccio le parole crociate, vado a fare la spesa. Sono diventato un omino di casa.»

E il calcio?

«Non lo guardo più, non sopporto le seconde voci, sono insopportabili, sono diventati dei personaggi.»

Anche lei ha fatto la seconda voce.

«Sì, sono stato uno dei primi. Forse il primo. Ho lavorato con Pizzul, ho seguito anche la Nazionale e la Champions. Ero bravo. Ancora oggi la gente mi ferma per strada e mi chiede quando torno. Ma ormai il mio tempo è passato.»

Lei è stato uno dei primi a parlare pubblicamente della sua depressione, poi anche altri l’hanno seguita.

«Mi fa compagnia da tanti anni, ancora ne soffro. La vita dell’allenatore è bella se vinci, ma se perdi diventa tutto difficile. Io ho pagato con la mia vita. La depressione è una malattia oscura, che ti logora dentro. Io la definisco il tumore dell’anima. Non la guarisci. Ho letto che Riva ne sta uscendo grazie ai figli. Ronaldo, quello vero, è stato due anni in clinica e ancora non ne è uscito e Iniesta ha detto che sta bene solo quando dorme, se riesce a dormire.»

E lei?

«Anche da giocatore avevo dei problemi. Ho fatto enormi sacrifici per emergere. Non ero un fenomeno e ho dovuto fare delle rinunce. Anche allora l’ansia di marcare giocatori forti mi consumava. La notte prima di una partita non dormivo mai, nessuno voleva stare in camera con me.»

Non ha mai trovato una via d’uscita?

«No. Ho avuto un’infanzia non facile, e forse questo ha inciso sulla mia formazione. Ho avuto un fratello che è morto a 20 anni, i miei genitori si sono separati presto e io sono cresciuto con i nonni. Chissà…»

Il calcio non l’ha salvata.

«Sa qual è la cosa che mi disturba di più? Quando mi dicono: hai avuto successo, hai giocato in Nazionale, perché sei depresso? Ecco, questa è la cosa più stupida che si possa dire, seppure carica di affetto. Lo so, non mi è mancato niente, ma se sono così non ci posso fare niente. Mi dicono: reagisci. Ma che sono scemo? Non provo a reagire? Certo che ci provo, ma non ci riesco e solo con i farmaci trovo un po’ di sollievo. E quando finisce l’effetto, ne prendo ancora. Chi soffre del mio stesso male mi può capire, tutti gli altri possono solo intuire come si sta.»

E, Agroppi, fare l’allenatore non l’ha certo aiutata.

«I calciatori, nella maggior parte dei casi, sono ignoranti, analfabeti e non capiscono quanto sia difficile il mestiere dell’allenatore. Spesso, invece di darti una mano, formano una cricca per metterti in difficoltà. Con il mio carattere avrei fatto a cazzotti tutti i giorni.»

Nemmeno i suoi giocatori la amavano troppo.

«Quelli che non giocavano. Un giorno Gentile fece un’intervista in cui disse che non lo facevo giocare perché io ero stato del Torino e lui della Juve. Allora quel giorno lo chiamai alla lavagna dentro lo spogliatoio e gli dissi: falla te la formazione per domenica.»

E la fece?

«Certo. Undici giocatori, come undici erano quelli che mandavo in campo io. Gli dissi: vedi, tu sei più bravo di me ma con questa formazione qualcuno dei tuoi compagni l’hai fatto incazzare di sicuro. E comunque quell’anno Gentile e Antognoni fecero 23 presenze su 30 partite.»

Così basta calcio e basta partite.

«Non mi diverto più. Qualche partita la guardo sperando che il portiere faccia un errore con i piedi e gli altri facciano gol. Questa esasperazione che i portieri devono giocare con i piedi mi manda in bestia. Ma se uno ha fatto il portiere è perché vuole giocare con le mani e con i piedi non ci sa fare. O no?»

Diciamo che il calcio in questi trent’anni è cambiato.

«In peggio, però. C’è poca qualità, i procuratori comandano e gli allenatori fanno i fenomeni. Vanno in panchina con la cartella, il computer, hanno staff di quindici persone, hanno pure lo psicologo. Altro che psicologo, per certi allenatori ci vorrebbe lo psichiatra. Ho sempre pensato che un allenatore può incidere al 20 per cento, il resto lo fanno la società e i giocatori. È per questo che il prete vince.»

Il prete?

«Sì, io Spalletti lo chiamo così perché parla sottovoce. È un allenatore di esperienza, ma può contare su una squadra di qualità e un presidente che è sempre presente. Ci sono le condizioni giuste per vincere. Però…»

Però?

«Ogni tanto mi torna in mente un episodio, se vuole glielo racconto.»

Prego.

«Spalletti allenava la Roma, non faceva giocare Totti e il pubblico lo contestava. Ricordo che in una partita, a tre minuti dalla fine, fece cenno al suo secondo di chiamare un giocatore dal riscaldamento. Il suo secondo è un bravo ragazzo, ma ha fatto una carriera da calciatore modesta. Si alza dalla panchina con in mano un bloccone di duecento pagine, e va a chiamare Totti. Si avvicina, apre il blocco e gli spiega i movimenti. Ora io dico, sei davanti a Totti, uno che ha giocato più di te, che è stato in Nazionale, e che è uno dei più forti giocatori italiani e gli devi spiegare cosa fare? Lo trovo offensivo. Ma questo è il calcio di oggi, devi far vedere che sei organizzato, che hai tutto sotto controllo. Il calcio oggi è una roba da ridere.»

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