ilNapolista

Bucchi: «La mia compagna morì con un infarto, mi sono sentito in colpa perché non ero con lei»

Al CorSera: «Ero in trasferta per una partita, mi sono chiesto se invece di giocare a calcio fossi stato lì. La forza per andare avanti me l’ha data nostra figlia, non l’ho più lasciata sola».

Bucchi: «La mia compagna morì con un infarto, mi sono sentito in colpa perché non ero con lei»
Ferrara 22/10/2017 - campionato di calcio serie A / Spal-Sassuolo / foto Andrea Rigano'/Image Sport nella foto: Cristian Bucchi

Cristian Bucchi, ex calciatore del Napoli, ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui ha raccontato come ha affrontato la morte della sua compagna avvenuta quando aveva 25 anni.

Bucchi: «La mia compagna morì con un infarto, mi sono sentito in colpa perché non ero con lei»

Come ha fatto a 25 anni a superare la morte della compagna davanti a vostra figlia che aveva un anno e mezzo?

«Si fa. Per mille motivi, nessuno dei quali forse può essere compreso da chi una situazione del genere non l’ha vissuta. La forza è proprio la bambina che non può crescere vedendoti soffrire, non può sentirsi sempre e solo sfortunata perché ha perso la madre in quel modo. E, allora lei, piccola, diventa il tuo mondo. Per i quattro anni successivi non l’ho lasciata mai da sola. Il calciatore e la figlia insieme in giro per l’Italia con una tata per quando facevo gli allenamenti, per le partite. Ma Emily era sempre con me anche al campo».

Emily era con la mamma, Valentina Pilla, la notte del 3 marzo del 2003 nella casa di Cagliari. Lì dove giocava Bucchi impegnato quel giorno in trasferta contro il Genoa. Di sera torna a casa e trova la compagna senza vita e la figlia con lo sguardo fisso su di lei. Una scena che diventa difficile dimenticare…

«Una tragedia che fai fatica ad accettare senza cadere nella più inutile delle domande: perché è successo a me? Credo che purtroppo la vita a volte sa essere durissima, in quel momento mi sono chiesto se invece di giocare a calcio fossi stato lì, se avessi potuto far qualcosa. Il senso di colpa iniziale è inevitabile. Valentina ebbe un infarto fulminante, non si sarebbe salvata. A Emily siamo stati tutti vicini, le abbiamo raccontato pian piano la verità, lei non ricorda, era troppo piccola. Forse è stato un bene. Io non ho mollato di un centimetro e, come è successo anche in altre situazioni non belle della mia vita, dopo mi sono sentito addirittura più forte».

Comincia a giocare a calcio nei dilettanti alla Sanbenedettese, lei era quello bravino ma non eccelso. Poi ne ha fatti tanti di gol…

«Sì ed è stata una soddisfazione aver potuto dimostrare a chi non aveva fiducia che si era sbagliato. Studiavo le punizioni, i calci d’angolo. Resto convinto che il lavoro alla lunga paghi sempre: io ce l’ho fatta così. Sono passato dai dilettanti alla serie A in un anno. Del resto, anche a scuola era uguale: al liceo scientifico studiavo tantissimo perché non tolleravo le brutte figure. Dovevo avere sempre il controllo della situazione per stare sereno. Ho frequentato anche l’Università mentre giocavo a calcio e studiavo, studiavo…».

Preparava un piano B?

«Se non fossi riuscito nel calcio avrei fatto il giornalista. L’idea me l’aveva data la prof di italiano. Scrivevo bene e lei diceva che i miei lavori erano interessanti, riuscivo a non essere scontato, a fornire domande e dare risposte. Quando ho smesso di giocare un po’ l’ho fatto in tv, sia come opinionista che come giornalista».

Grandi successi e brutte cadute. Squalificato per doping: un anno fermo. Era in rampa di lancio col Perugia in serie A, vicino alla Nazionale:

«Altra batosta, lì mi sentivo impotente. Sapevo di essere innocente ma non potevo dimostrarlo. Presi 16 mesi, poi ridotti a otto. Ancora oggi non so darmi una spiegazione. Up e down, la mia carriera è stata un po’ così, ma mi rialzavo sempre mosso dalla rabbia e dalla determinazione che non dovevo mollare».

Si è da soli nel calcio, nel bene e nel male?

«Nel calcio sei sempre da solo. Vivi solitamente lontano dai tuoi affetti, dagli amici, dalla famiglia, dalla città dove sei nato. Costruisci qualche rapporto che poi non puoi mai tenere nel tempo, quando torni a casa ti rendi conto che ciò che hai lasciato non è più com’era prima. Sei solo perché quando ti aspetti di condividere un dispiacere, una delusione con qualcuno spesso non trovi chi ti aspetti che ci sia. Forse per questo motivo il calcio ti rende anche forte. Io ho superato tanti limiti personali. Ho cominciato a giocare perché veramente mi piaceva il pallone senza l’ambizione di dover diventare necessariamente una star. Senza manie di grandezza. Ero pigro, restio a lasciare la mia comfort zone. Non mi piaceva andar lontano, viaggiare. Sceglievo sempre la soluzione che non mi portasse troppo lontano. Il calcio mi ha invece aperto orizzonti, mi ha fatto scoprire culture, lingue e persone diverse da me. Mi ha arricchito».

Le amicizie nel calcio esistono?

«Esistono i legami forti, pochi. De Zerbi, Pioli: due colleghi che sento vicini».

È sposato dal 2009 con Roberta Leto, ricorda la proposta di matrimonio?

«La portai all’aeroporto di Napoli, dove avevo prenotato un elicottero che ci portò in Costiera Amalfitana, e a Ravello le chiesi di sposarmi».

ilnapolista © riproduzione riservata