L’adolescenziale claque ideologica ha trasformato un ottimo allenatore nell’uomo della provvidenza in nome dello dello zeitgeist pallonaro
Il thiagomottismo ha fatto di Thiago Motta un giardiniere Chance
Per mesi, a sentire le dissertazioni sulle reti televisive, a leggere gli editoriali sulla carta stampata, a dare credito alle dirette calcistiche online e al vomitus cotidianus dei social network, sembrava che il calcio italiano avesse un moderno profeta, pronto a redimerlo da tutti i suoi peccati e a trasformare quella Vecchia Signora della Juventus in una giovane e attraente modella: parliamo di Thiago Motta, il prescelto.
La trama pareva un po’ quella di Oltre il giardino (Being There), bellissimo film del 1979 in cui il protagonista, tale Chance, giardiniere analfabeta che per tutta la vita non era mai uscito dal giardino della proprietà in cui viveva (interpretato da un magistrale Peter Sellers), si trova catapultato nel mondo esterno senza capire minimamente cosa gli stia accadendo, e in modo del tutto fortuito e inconsapevole diventa consigliere di uno tra gli uomini più potenti d’America, poi addirittura del Presidente, fino a quando non è indicato lui stesso come prossimo candidato alla guida del Paese. Il film è apparentemente una commedia degli equivoci in cui Chance, affetto da una disabilità cognitiva, viene in realtà scambiato per un genio dall’élite politica e mediatica che accoglie le sue frasi sul giardinaggio, e le sue formule di cortesia, come profonde e sottili metafore sullo stato del Paese.
Sia chiaro, il parallelo qui non è dovuto al mestiere di Motta o alle sue abilità cognitive (che anzi sono assai sviluppate), bensì al ruolo dei media, folgorati sulla via di Bologna fino al punto di perdersi in una sbornia collettiva, e affogare in un brodo di giuggiole, ancor prima che Thiago fosse stato in grado di dimostrare qualcosa, scambiando ogni sua mossa per una geniale trovata avanguardista. Avesse anche schierato Vlahovic al centro della difesa, in un momento di follia, in tanti avrebbero rimarcato l’ingegno prodigioso del tecnico italo-brasiliano, riuscito finalmente a sfruttare nel migliore dei modi la struttura fisica del talento serbo. Si fa per ridere, ma in realtà neanche troppo.
Così è nata una commedia degli equivoci che nei mesi scorsi ha accompagnato ogni azione e dichiarazione del neoallenatore juventino, incensato da un racconto sportivo paradossale in cui ogni critica era considerata un imperdonabile peccato di lesa maestà. Era la cappa dell’ideologia, capace di formare e deformare una realtà, con tutte le sue appendici di esaltazione da parte della claque mottiana e di autocensura da parte di chi avrebbe voluto semplicemente analizzare i fatti – guai a dire che alcuni esperimenti tattici fossero un po’ azzardati, automatica ammissione di ignoranza e rozzezza calcistica.
Chiariamo però fin da subito, per evitare fraintendimenti: chi scrive pensa che Thiago Motta sia un ottimo allenatore, con tutte le carte in regola per diventare un grandissimo allenatore. Di più, potrebbe un domani rappresentare la sintesi in panchina tra due approcci spesso conflittuali: quello dei gestori dello spogliatoio (e Thiago ha il carattere e lo ‘standing’ adatto), e quello dei tattici molto preparati ma un po’ troppo ossessivi, carenti a livello umano. Eppure, il punto è proprio questo: stiamo parlando di un’ipotesi, di una prospettiva. Che Thiago Motta sia un grande tecnico è ad oggi solo un’interpretazione, più o meno condivisibile, che si muove nel campo delle teorie; che invece, non per alimentare la polarizzazione ma per fornire un esempio e dare un termine di paragone, Massimiliano Allegri sia un grande allenatore, beh questo, che piaccia o meno, è un fatto. Come ha detto Buffon:
«Non scherziamo: basta con il paragone tra Motta e Allegri, non sta né in cielo né in terra. Uno ha vinto tanto, Thiago sta cominciando ora, chi li mette a confronto è spinto dalla volontà di infastidire l’ambiente».
Eppure, non è solo chi vuole destabilizzare il mondo Juve a portare avanti il ‘paragone’, anzi. È principalmente chi da tempo sta destabilizzando la narrazione del calcio tutto, applicando ad esso delle logiche politiche che fanno di teorie, più o meno strampalate, realtà indiscutibili e autoevidenti – malgrado l’evidenza spesso dica l’esatto contrario.
Nell’epoca del relativismo assoluto, d’altronde, anche il risultato è diventato relativo e così la grandezza di un allenatore non si misura più con i trofei vinti o i risultati ma anche con … con … onestamente? non si è ancora capito. Diciamo con la volontà propositiva, con il grado di sperimentalismo calcistico funzionale, sicuramente con la capacità di essere nello zeitgeist (lo spirito del tempo) pallonaro, facendo sì che la propria squadra faccia un ‘bel calcio’ e che abbia il dominio del gioco.
Cosa significhino le due cose è difficile dirlo, intanto perché si confonde il mezzo (il gioco) con il fine (la vittoria), poi perché si confonde il soggettivo con l’oggettivo (qual è il bel calcio?), ancora perché si confonde il dominio del gioco con il dominio del pallone e del suo possesso. Insomma, è tutta una gran confusione, e lo si capisce proprio dal tipo di possesso palla della Juventus – “minimalista e rallentato” come l’ha definito Fabio Licari sulla Gazzetta dello Sport – che si attesta su una media del 69%, ma che impiega 171 passaggi per arrivare a tirare nello specchio contro i 102 dell’Atalanta, i 138 del Napoli e via discorrendo.
Un possesso difensivo che più che dominare la partita la addormenta, facendo assopire la stessa squadra bianconera che poi si perde in errori grossolani, disattenzioni, vuoti mentali e strafalcioni difensivi, con l’effetto che i risultati latitano mentre dal punto di vista del gioco «c’era una grande aspettativa per un calcio più spettacolare e, invece, a volte giocano in modo anche peggiore rispetto all’anno scorso, quando si diceva peste e corna di Allegri», per citare Fabio Cannavaro.
Ma il problema, sottolineiamo ancora, non è Motta, a cui come tutti ripetono “va dato tempo” e che anzi sta provando, tra alcuni errori e passi falsi, a dismettere aureola e Sacra Tunica. «Non pensate che sia fissato con il mio gioco, non è così», ha precisato, spiegando poi: «Io ho sempre detto che giocare bene significa capire il momento, capire la partita». Vangelo dell’italianità applicata al pallone che, per chi ancora non l’avesse capito, non significa difensivismo bensì adattamento, riflesso sportivo di quel carattere tipicamente nazionale che è l’antidogmatismo, la mancanza di una dottrina sempre valida, l’eclettismo figlio dello spirito mediterraneo; l’arte dell’arrangiarsi, direbbe qualcun altro. Tant’è che in occasione della partita contro il City, nella quale ha sfoderato un italianissimo catenaccio e contropiede su misura dell’avversario, tra echi e suggestioni allegriane Motta ha dichiarato: «Comandare la partita non significa solo possesso, per comandare ci sono tante altre cose che bisogna fare bene».
Come ha scritto Ivan Zazzaroni sul Corriere dello Sport, uno dei pochi a non farsi abbagliare dal sol dell’avvenire mottiano: «Il problema di Thiago non è Motta, bensì i topolini che seguono qualche pifferaio tutt’altro che magico. Il firulì firulà suonato insistentemente al popolo insoddisfatto era questo: “la Juve cambi registro, basta con il difensivismo, il gioco passivo, il contropiede come must: qui ci vuole l’allenatore della proposta, Motta”. Ciò che all’inizio ha aiutato Thiago a entrare nei cuori degli juventini è stato proprio l’anti-allegrismo».
Tuttavia quando si diventa profeti, per giunta in una narrazione così esacerbata e polarizzata, c’è poco da fare. I thiagomottisti, adolescenti mai cresciuti, complottisti nel pallone convinti che a loro, illuminati, spettasse il compito di liberare il football dalla cabala di oscurantisti che lo teneva in ostaggio, sono espressione calcistica di un fanatismo ideologico che pervade anche la società. Un progressismo estremo e messianico, un’ondata woke che vuole riscrivere la storia fino ad abbatterne simboli e gerarchie, e che condanna non all’alterità bensì alla rimozione tutto ciò che progresso (dal loro punto di vista) non è: così il calcio incarnato da gente come Allegri, Mourinho, Simeone, addirittura Ancelotti – speculativo, reattivo, superato, brutto e cattivo, incapace di adattarsi agli sviluppi del gioco – non rappresenta un altro approccio bensì un ostacolo, una resistenza da eliminare nell’inarrestabile marcia del progresso calcistico; uno stato di minorità dal quale emanciparsi; un tipo di gioco non solo da contestare o avversare, ma direttamente da privare del diritto di espressione, di cittadinanza, di rappresentanza.
Il problema è che, dissipate le nebbie dell’ideologia, rimangono i fatti e con essi la necessità di correggere un po’ il tiro. Lo ha scritto anche Daniele Dallera sul Corriere della Sera, parlando di quei “loggionisti dello Juventus Stadium che fischiavano Allegri anche quando vinceva la Coppa Italia” – contro un’Atalanta per giunta che in quelle settimane stava strapazzando un po’ tutti –, i quali ora “devono cambiare copione”. Filosofi del calcio, per citare l’ultima intervista di Mourinho, tenuti a compiere la missione più difficile per un filosofo: guardare le cose per come effettivamente sono. Non pensare, osserva, diceva Wittgenstein.
Ebbene osservando – classifica, risultati, prestazioni, progressi – si fa strada, come scrive il direttore di Tuttosport Vaciago, una strisciante e “preoccupante convinzione”, quella secondo cui “questa Juventus non è una grande squadra”, bensì una “buona squadra”. «Una grande squadra chiude le partite oppure le controlla sul serio, senza strafalcioni difensivi e regali agli avversari. È questa la caratteristica che separa le grandi squadre dalle buone squadre. E la Juventus, oggi, sembra proprio una buona squadra. Niente di meno e niente di più. Una grande squadra non ha la fragilità che la Juventus mostra da ottobre in poi».
Difficile dare torto in questo caso a Vaciago, anche perché non si tratta solo di una questione di risultati (11 pareggi in 18 partite in Serie A, le seconde che ne hanno fatti di più, Genoa e Empoli, stanno a quota 8) ma anche di prestazioni, di progressi generali, forse ancora peggio di atteggiamento e mentalità. La verità è che la Juventus si trova oggi in un momento cruciale della propria storia nella quale sta provando a cambiare pelle, ad inaugurare una mutazione antropologica che ha messo in discussione la filosofia stessa del club. Quella filosofia naturalmente tesa alla vittoria, ossessionata dalla volontà di vittoria, e che oggi appare annacquata, infiacchita, tanto che Motta è arrivato a dire «Voglio vincere. Però per me oggi non è un’ossessione».
Una frase che, dalle parti di Torino, risuona strana o meglio straniante. Emblematica in tal senso è stata la reazione di Ciro Ferrara, che intervistato sul Corriere della Sera ha dichiarato: «Mi ha sorpreso la dichiarazione che la vittoria non deve essere un’ossessione. Il primo giorno in cui sono arrivato alla Juve mi è stato detto: “Dobbiamo vincere”. La storia e il Dna del club dicono questo». E ancora: «È stato mandato via un tecnico vincente, che praticava un calcio vincente, perché la storia di Allegri parla in maniera chiara. Ed è stato fatto perché si voleva il bel gioco (…) Il problema sta nelle aspettative che sono state create, anche da voi».
La questione, tralasciando il problema di narrazione di cui sopra, sta proprio qui, nel Dna e nell’essenza del club. A mancare oggi alla Juventus non sono solo il ‘bel gioco’ e i risultati ma anche, e ancor prima, un’identità definita. Quella che negli ultimi anni è stata sacrificata tanto dal punto di vista tecnico (con la costruzione di rose improbabili e poco funzionali, e l’uomo chiamato per risolvere il problema, Giuntoli, non ha certo migliorato le cose) quanto dal punto dirigenziale (con una gestione del club aspirante globale e priva di visione, la quale ha via via reciso le salde radici nazionali un po’ come accaduto per la Fita, con buona pace dell’Avvocato ma anche di Marchionne).
La Vecchia Signora ha una leadership non all’altezza del suo ruolo che si ritrova un club senza coordinate, che veleggia a vista: non più quello di ieri ma ben lungi dal diventare quello di domani. Un cantiere aperto ma privo di un vero progetto. Fino al punto che, ad oggi, non si sa più cosa sia la Juve.
In tutto ciò, si è ingenuamente creduto che Thiago Motta avrebbe risolto tutti i problemi, fornendo lui una filosofia alla squadra e proiettando la Juventus nella contemporaneità: di nuovo, l’ideologia che deforma il reale secondo la propria volontà e rappresentazione. Al contrario Motta ha potuto contare su una campagna acquisti faraonica concordata con Giuntoli, che ha investito – o meglio garantito, perché i pagamenti sono dilazionati – circa 200 milioni di euro di cui la metà per Koopmeiners (54,7) e Douglas Luiz (51,5), ma senza neanche riuscire a prendere un sostituto di Vlahovic, necessario visti gli annosi problemi di Milik. Il tutto con l’effetto che la Juventus non ha risolto i suoi cronici equivoci tattici, tutt’altro, non ha migliorato i suoi risultati, anzi, e neppure somiglia lontanamente a quella che avevano immaginato lo stesso allenatore così come i vari opinionisti ed editorialisti.
Una squadra che anziché dare segnali di crescita ne sta dando di regressione, soprattutto dal punto di vista della tenuta mentale e della gestione dei momenti. È costante l’impressione, durante le partite, che da un momento all’altro la Juve possa sabotarsi, spegnere l’interruttore, prendere gol pur essendo in controllo, e forse questa netta impressione di precarietà – per una squadra come quella bianconera – è ancora peggiore dei punti persi per strada. È inquietante soprattutto per un club che ha sempre fatto della solidità e della superiorità mentale il cardine delle proprie vittorie, con quella celebre mentalità, famelica e ossessiva, che strangolava e schiacciava gli avversari.
Di questo Thiago Motta è naturalmente chiamato a rispondere, visti i risultati e anche considerati i suoi cambi, spesso masochisti e francamente inintelligibili – se non per una schiera di sedicenti addetti ai lavori, e nerd del calcio, che ricorrono a supercazzole prematurate con scappellamento a destra per spiegarli a noi comuni mortali, ancora convinti che il calcio non sia diventato una branca della fisica sperimentale.
In tal senso, bisogna scindere tra le responsabilità di Motta come allenatore (comunque presenti e innegabili) e quelle della narrazione sportiva, di chi lo ha tratteggiato, in maniera scorretta e strumentale, come l’uomo nuovo che avrebbe inaugurato l’illuminismo bianconero, scacciando le tenebre dell’era Allegri e del suo calcio reattivo. In «questa atmosfera di ripudio, di anno zero, di terra bruciata del passato», come l’ha definita Pierluigi Battista proprio qui sul Napolista, è andata in scena «la damnatio memoriae di Allegri, una cosa che non ha nessun aggancio con quello che accade realmente», mentre «è passata l’idea che con Thiago Motta si arrivasse a una nuova alba». Eppure, continua Battista, «non c’è nulla di peggio di una trionfale rivoluzione che non conferma le aspettative».
Anche perché siamo in Italia, terra in cui le rivoluzioni iniziano per strada – ormai sui social – e finiscono a tavola, come diceva Longanesi. Figurarsi a Torino sponda bianconera, epicentro della tradizione e dell’austerità calcistica sabauda. Qui, dai tempi di Maifredi a quelli di Sarri, le rivoluzioni sono sempre state rigettate e hanno inesorabilmente naufragato. Motta probabilmente l’ha capito ma, se aspettiamo che lo comprendano i suoi, possiamo anche aspettare il prossimo Giubileo.