L’opera di Veronesi nulla aggiunge su quegli anni. È in imbarazzo su Cotelli figura chiave di quella squadra. Non scava, celebra. È a uso interno
“La valanga azzurra” ha la natura di un film aziendale. Peccato
Dino Risi stroncò Nanni Moretti con una feroce battuta delle sue. Diceva che quando guardava le sue opere, gli veniva sempre da dire: “Nanni spostati e facci vedere il film”. È più o meno quel che viene in mente guardando “La valanga azzurra” del regista Giovanni Veronesi. Aldo Grasso lo scrive sul Corriere della Sera: pensava di ritrovarsi un’opera simile a “Una squadra” (la serie che raccontò Panatta e gli altri della squadra di Coppa Davis degli anni Settanta) e invece «mi sono trovato di fronte a un racconto totalmente diverso che, scherzando, si potrebbe ribattezzare “la Valanga Veronesi”».
La spiegazione è nell’incipit: Veronesi era un bambino promettente sugli sci, poi una caduta rovinosa e il conseguente intervento di sua madre chiusero il suo cassetto dei sogni.
A nostro avviso, però, non è tanto questo il problema del film “La valanga azzurra”. Il punto è che l’opera non racconta, non scava, non può mai affascinare chi quegli anni non se li ricorda, non li ha mai vissuti o magari non ha mai nemmeno guardato una gara di sci in tv. La potenza de “La squadra” era che attraverso il tennis e quella formazione – irripetibile dal punto di vista degli intrecci umani – raccontava un pezzo d’Italia. E lasciava emergere nitidamente le contraddizioni, le rivalità, i dissapori, le asprezze che esistono in un gruppo di professionisti di alto livello. Il buonismo era per bambini di un tempo (oggi non se lo bevono più manco le creature). In “La valanga azzurra” non emerge nulla di tutto questo. È tutto edulcorato. È come se fosse un filmino aziendale, nel senso che è a uso interno. E non tocca praticamente alcun nervo scoperto, se non il passaggio sulla radiazione dei due sciatori-sindacalisti del gruppo (Giuliano Besson e Stefano Anzi).
Cotelli fu l’anima della valanga azzurra
Per chi non lo sapesse, dal 71 al 76 lo sci italiano ha praticamente dominato il mondo. Gustav Thoeni era il Panatta della neve: meno affascinante di Adriano, non parlava praticamente mai ma vinceva decisamente più (quattro Coppe del mondo). Attorno a lui nacque una squadra fantastica in cui spiccava Piero Gros che di Gustav era il vero rivale: vinse una Coppa del mondo, fu l’uomo che interruppe la dittatura di Thoeni. Ma, soprattutto, la Valanga azzurra ruotava attorno a un uomo cui il film dedica sì e no cinque minuti (sono pure troppi), persino in modo imbarazzato. Si tratta di Mario Cotelli (morto qualche anno fa). Il direttore tecnico di quella Nazionale. L’anima di quella squadra. L’uomo che, nettamente in anticipo rispetto ai suoi tempi, ragionava da manager sportivo, sapeva perfettamente cosa fosse il marketing. Se la Valanga azzurra impattò tanto sull’opinione pubblica italiana, si deve certo agli atleti e ai risultati ma tantissimo anche a Cotelli. Figura contraddittoria, anche ferocemente contestata. Ma decisamente centrale. Cotelli sta a quella squadra come Vittori a Mennea o Belardinelli al tennis anni Settanta. Chi nulla sa di quei tempi, non lo capirebbe certo guardando il film. “Una squadra”, col metodo di far parlare tutti, lasciava emergere aneddoti e ricordi in modo che poi ciascuno potesse farsi la sua idea. In questo caso, invece, ha prevalso l’ipocrisia. Meglio tenere la polvere sotto il tappeto, tranne rarissimi flash colti solo da chi aveva le orecchie drizzate in quei rari passaggi. Thoeni se la cava con qualche frase di rito. Piero Gros (uno che parla e tanto, non certo il classico montanaro) non dice nulla di Cotelli, si limita a dire che la vera anima fu Oreste Peccedi allenatore dell’area tecnica (non preparatore atletico, come scritto in precedenza, ndr) recentemente scomparso.
Il capitolo Cotelli è stato ovattato. E con esso anche quello sulla feroce rivalità interna di cui peraltro Cotelli ha spesso parlato. In questo è un film aziendale. Incapace di raggiungere un pubblico più vasto. È “solo” un amarcord per chi quegli anni li ha vissuti o ne ha letto. Non ci sono chicche. Né racconti inediti. Se non quello (non proprio inedito ma ignoto ai più) del colpo di pistola sparato a Paolo De Chiesa dalla sua fidanzata dell’epoca. Pochissimi approfondimenti sugli altri sciatori. Uno su tutti: Stricker cavallo pazzo, uno che meriterebbe un film a sé. Se qualcuno lo scoprisse, ne tirerebbe fuori un’opera da sbancare il botteghino.
Come Sorrentino lascia dire alla protagonista di “This must be the place” che cuoce troppo l’hamburger: “È andata così”.