A Repubblica: “Intervengono troppo. Parlano con l’allenatore, parlano con l’insegnante. Mia madre quando ci diceva che dovevamo arrangiarci lo usava come metodo”
BOLOGNA — Le interviste a Julio Velasco è sempre un caso che stiano posizionate nella pagine di sport. Repubblica ne dedica due intere, questa volta all’allenatore-guro della pallavolo. Lo sport anche in questo caso è una sponda per parlare d’altro: lezioni di vita, in estrema sintesi. Pedagogia, più che altro. La parte più interessante dell’intervista è proprio questa.
“E’ cambiato il mondo – dice – è cambiata la velocità di cambiamento del mondo. Anche allora gli adulti criticavano tante cose che, secondo loro, ci avrebbero reso peggiori. Ora non so se il web aumenta la stupidità, ma so che aumenta la possibilità di accedere a certe cose, di imparare a farle, di esprimerti se vuoi cantare o suonare. Trovo ingeneroso dire che i giovani hanno poca voglia di fare: il problema è che fanno troppe cose, il corso di inglese, l’allenamento sportivo, lo studio, e hanno poco tempo davvero libero, per la noia e l’ozio creativo. Ma soprattutto penso che ad essere cambiati siano i genitori”.
Tema vecchio, i genitori. Sempre attuali. “Oggi i genitori hanno paura della frustrazione dei figli, pensano che i traumi danneggino la loro anima per sempre. La storia dimostra che non è così: altrimenti dopo la guerra, con una generazione cresciuta tra bombe e miseria, cosa sarebbe dovuto succedere? Intervengono troppo. Parlano con l’allenatore, parlano con l’insegnante. Per aiutarli, ovviamente, ma non capiscono che ciò che ti rende forte è un buon sistema immunitario. Per costruirlo, però, devi anche ammalarti e superare il virus. E lo devi superare tu, da solo. C’è un paradigma sottinteso: se non intervieni non ti prendi abbastanza cura. Ma non è così: mia madre quando ci diceva che dovevamo arrangiarci lo usava come metodo. Perché quando la mano del genitore ti molla come fai?”.
E poi, “a volte i genitori usano i figli come specchio narcisistico. Per avere conferme su di loro. I figli ti devono piacere perché sono tuoi, non perché sono i migliori. Non c’è un ranking: tuo figlio non vale solo se arriva in alto, altrimenti è un fallito. Quando un genitore dice “mio figlio è bravo ma non lo capiscono”, sta tranquillizzando se stesso. “Non è colpa sua” vuol dire “non è colpa mia”».
E lo sport, “se viene trasformato in una lente per guardare alla vita, non fa bene. La vita non è un campionato. Se la musica o l’arte diventano una classifica, come nei talent, può anche essere divertente, ma applicando lo schema in modo rigido diventa un po’ mostruoso. Van Gogh sarebbe retrocesso e solo da morto avrebbe vinto la Champions”.
“Una volta mia figlia mi ha detto: so che non vuoi sentire queste cose, ma quel professore ce l’ha con me. Io le ho risposto: ti credo, ma si tratta proprio di questo. Tu devi riuscire a essere promossa da chi ce l’ha con te, devi imparare a gestirlo. Lei voleva solo essere capita e infatti l’ha risolta. Spesso quando allenavo le giovanili incontravo i padri e le madri perché va anche detto che non c’è una università per genitori. Si riflette poco su che tipo di genitori siamo. Più che parlare del disagio dei figli, parlerei del disagio dei genitori“.
“Oggi però abbiamo una scala di misurazione delle insicurezze accuratissima, stiamo attenti a ogni piccolo segnale. Che va bene, ma bisogna dare il giusto peso alle cose”.
Perché la infastidiscono le storie sul gruppo unito? “Perché si confondono le cose. Anche chi perde può avere un gruppo unito. Aiutare una compagna non è un gesto di solidarietà o di affetto, ma fa parte del gioco. Tu devi aiutarla perché è il tuo compito, se non lo fai stai giocando male, perché la copertura fa parte del metodo di gioco. Non abbiamo parlato dei problemi che c’erano stati tra le giocatrici negli anni precedenti, ma, per esempio, abbiamo ruotato sempre le camere, ogni settimana si cambiavano le compagne di stanza e, per quel che so, ci sono stati chiarimenti tra loro. Ma riguardava loro. Certi stereotipi sono alimentati anche da noi sportivi. Da noi allenatori. Lo facciamo ogni volta che esortiamo e non diamo indicazioni concrete. Diciamo “giochiamo di squadra” o “dobbiamo sbagliare meno”. La verità è che tu allenatore non sai bene cosa dire e quindi esorti”.
Velasco è un ottimista: “Un po’ sono così di carattere, un po’ hanno inciso le esperienze che aiutano a relativizzare, dall’Argentina al tempo della dittatura fino alla malattia di persone che ami. L’ottimismo non è “andrà tutto bene” quanto piuttosto “non va bene, ma non è così grave”. Ci sono persone che, a prescindere dal problema, si lamentano in continuazione. Bisogna godersi le cose. Anche quelle piccole, come dice Wenders: strofinarsi le mani quando fa freddo ti dà una bella sensazione calda”.
“Il cambiamento oggi fa paura perché è troppo, ogni mese c’è un software nuovo, impari e devi già aggiornarti. Chi gestisce le persone dovrebbe pensare a questo, il rischio sennò è di mettere troppo stress. Per cambiare una squadra devi proporre poche cose, sapendo che il cambiamento a volte è bello e a volte no, perché è complicato fare una cosa nuova. Riconoscere le difficoltà è la prima cosa, le persone così si sentono capite, la seconda è trasmettere fiducia, far sentire che ce la si può fare, non giudicando al primo errore o trattando gli altri da poveri incapaci. I giocatori e le giocatrici non sono noi e sono diversi tra loro”.