Intervista al Fatto: «Stra-Lotta continua eravamo noi, cresciuti in un cortile proletario di Bagnoli. Il pubblico tifava: “‘Edoa’, ammazzali’»
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Edoardo Bennato: «Scazzotata epica nel 77 con i presunti rivoluzionari, figli di papà, che volevano la musica gratis»
Stasera – mercoledì 19 febbraio – in prima serata su Raiuno va in onda il documentario “Edoardo Bennato. Sono solo canzonette”. Il Fatto quotidiano, con Stefano Mannucci, intervista il cantante napoletano che ha 78 anni.
L’intervista parte della scazzottata al concetto di Pesaro del 1977.
Erano una quindicina, i fazzoletti sulla bocca come banditi del Far West. Sfondarono dentro il Palasport. Gridavano quel ridicolo slogan: ‘Bennato, Bennato, il sistema ti ha comprato’.
Pesaro 1977, il suo scontro fisico con gli autoriduttori, caro Edoardo.
Pretendevano la musica gratis, processavano noi cantautori considerati a sinistra. De Gregori si illudeva di dialogare con questi rivoluzionari fasulli. Io e il mio team, cresciuti in un cortile proletario di Bagnoli, li annusavamo a distanza. Stra-lotta Continua eravamo noi, non i figli di papà.
Arrivarono dagli spalti alle vostre spalle.
Dove avevamo piazzato il mixer, a protezione. Non c’era polizia né servizio d’ordine. E questi venivano da noi che praticavamo il prezzo politico, mille lire, non andavano nelle discoteche dei ricchi, se ne fregavano di attaccare i Pooh o Cocciante. Sul palco c’ero solo io. Chiesi di accendere le luci, nel buio gli esaltati diventavano più aggressivi. Alla loro violenza occorreva rispondere colpo su colpo. Mio fratello Giorgio, il manager, i tecnici si azzuffarono. Mi sfilai la chitarra gettandomi nella mischia. Il pubblico fece il tifo: ‘Edoa’, ammazzali’. Scazzottata epica.
I partiti le chiedevano la tessera?
No. Sapevano che non l’avrei presa. Però ero diventato l’eroe dell’intellighenzia di sinistra dopo un festival a Civitanova Marche, ’73. C’erano anche Battiato, Lolli, Claudio Rocchi. Suonai dei pezzi schizo-punk, Ma che bella città, Salviamo il salvabile, Arrivano i buoni ,Uno buono dove ironizzavo sul presidente Leone, Affacciati affacciati dedicato a Paolo VI. Quando scesi dal palco la mia vita era cambiata, mi designarono portavoce dell’insoddisfazione giovanile. Quelle canzoni le avevo testate suonandole da busker a Londra e a Roma, davanti al bar Vanni.
Incrocio strategico, alle spalle della Rai.
Dei giornalisti mi notarono. Era la mia ultima carta. La Ricordi mi aveva licenziato dopo il fiasco del debutto, Non farti cadere le braccia. Non vendette una copia. Dopo quei festival il direttore della Ricordi mi richiamò: ‘Benna’, come hai fatto? Sei diventato un mito’. E mi fecero incidere un nuovo album, I buoni e i cattivi. Qualcuno, molto dopo, avrebbe usato lo stesso titolo.
Racconta Di Fabrizio De André
Un altro mio grande amico, andavo spesso da lui in Sardegna, lo esaltava che noi ex ragazzini del cortile di Bagnoli ci fossimo imposti nel carrozzone collodiano della musica, lo schifava la mandria. Gli dedicai una ballata, “Pronti a salpare”, dove si parlava di emigrazione. ‘Usiamo la poesia’ si raccomandava Faber. ‘Non dobbiamo fare i sociologi. Siamo poeti’.
Com’era De André?
Si chiudeva con i miei amici a vedere Sanremo, e non dirò cosa usciva dalla sua bocca. Sarebbe stato fiero di vedermi lì giorni fa, c’ero stato anche nel 2010 e due anni fa con Leo Gassman. Festival così diversi da quelli dei primi anni 70, che la Rai neanche trasmetteva. Erano scaduti al livello di sagre parrocchiali: che differenza con le Feste dei Partiti, i cantautori con la tessera in tasca.