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Il leader del Napoli è il gruppo, non ci sono uomini copertina. Come l’Italia di Lippi del 2006

È una rivoluzione copernicana nella città del messia salvifico. Ovviamente il demiurgo è Conte che lo fece già alla Juve e in Nazionale

Il leader del Napoli è il gruppo, non ci sono uomini copertina. Come l’Italia di Lippi del 2006
Mg Udine 14/12/2024 - campionato di calcio serie A / Udinese-Napoli / foto Matteo Gribaudi/Image Sport nella foto: esultanza gol Andre’ Frank Anguissa

Cominciare a fuggire da Maradona, dalla sua idea

Un bel po’ di anni fa, in in una serie di articoli di analisi sul rapporto tra il Napoli e la città di Napoli, il sociologo Amedeo Zeni e lo storico Angelo Frungillo scrissero che Diego Maradona era stato «il messia salvifico di cui Napoli sembra avere perennemente bisogno». Fu un modo per dire che i napoletani, in qualche modo, sono sempre stati legati all’idea – profondamente religiosa – per cui basti l’apparizione di un grande leader per sconfiggere il male. O per battere gli avversari che si affrontano su un campo da gioco verde, rettangolare, con due porte da sette metri. In questo senso, il fatto che un talento irripetibile come Maradona sia passato proprio da Napoli, come dire, non ha aiutato. È come se avesse cristallizzato quell’idea. Anzi, si può dire: l’ha cementata. Fino a renderla incancellabile, immodificabile. Un po’ come fa Leonardo DiCaprio/Dom Cobb nel film Inception.

Il terzo scudetto del Napoli ha cambiato solo in parte questa situazione. Non ha cancellato Maradona e il suo ricordo e la sua eredità psicoemotiva, ci mancherebbe altro, ma almeno ha mostrato che può esserci vita e persino vittoria dopo la sua epopea. In ogni caso, però, il trionfo di due anni fa ha dei volti-simbolo: quello di Osimhen e quello di Kvaratskhelia, che nel corso della stagione si scambiarono ripetutamente la palma di miglior giocatore del campionato. A questa coppia si potrebbe aggiungere anche Kim Min-jae, un difensore che almeno in Serie A è stato davvero capace di spostare gli equilibri. Di fare la differenza.

E allora si potrebbe dire che il Napoli campione d’Italia del 2023 era una squadra piena di ottimi/grandi giocatori – Di Lorenzo, Lobotka, Anguissa, Zielinski – in cui giganteggiavano due fuoriclasse e mezzo. Che era squadra guidata da un allenatore-filosofo in grado di amalgamare bene tutti questi ingredienti. Che non era una squadra monocratica, piuttosto tecnocratica. E che quindi ha rappresentato una sorta di primo passo, un principio di fuga dalla necessità di Maradona, del messia salvifico.

Un altro modo di vincere

Perché, prima di arrivare a parlare del Napoli di Conte, era ed è importante fare tutti questi passaggi? Per un motivo semplice: nel calcio, lo dice la storia, si vince in tanti modi. Con il grande leader può succedere ed è successo, anche in altri luoghi e in altri contesti. Ma, ripetiamo, esistono pure delle altre strade. Ecco un po’ di esempi: la Nazionale italiana campione d’Europa del 2021, un gruppo di buonissimo livello elevato all’eccellenza grazie alla fiducia incrollabile in uno stile di gioco fresco, audace, riconoscibile; il Chelsea vincitore della Champions League 2020/21, una squadra solidissima ma priva di stelle, con un tridente offensivo composto da Havertz, Werner e Mount; l’Italia di Lippi del 2006, capace di vincere un Mondiale nonostante le difficoltà di Toni, Totti e Del Piero, con Buffon, Pirlo e Cannavaro – metteteli nell’ordine che volete – in stato di grazia assoluta.

Ecco, probabilmente l’Italia del 2006 è la squadra che (fatte le debite proporzioni, naturalmente) ha più cose in comune con il Napoli di Conte. Si potrebbe partire dall’identità tattica equilibrata ma non speculativa – quella Nazionale viene ricordata per le prestazioni maestose e quasi commoventi di Buffon, Cannavaro, Materazzi, Gattuso, ma era una squadra che sapeva sempre cosa fare col pallone tra i piedi – o dalla grande capacità di leggere i momenti delle partite, soprattutto a livello emotivo. Ma la verità è che la prossimità più evidente, quindi più reale, tra l’Italia del 2006 e il Napoli di Conte sta nella forza del gruppo.

Una squadra in missione

Forse la miglior definizione del Napoli 2024/25 l’ha data Emanuele Mongiardo di Ultimo Uomo, in un articolo pubblicato dopo la vittoria per 2-0 contro il Milan a San Siro: «Quella di Conte sembra una squadra in missione per conte del suo allenatore». È una lettura profonda e condivisibile. Per tanti motivi. Intanto perché, durante e soprattutto dopo lo strappo/addio con Kvaratskhelia, gli azzurri sono riusciti a non perdere la rotta. Insomma, per dirla brutalmente: il Napoli non si è sfaldato come nel 2016, dopo l’espulsione di Higuaín a Udine e la lunga squalifica comminata al centravanti argentino. E non ha perso forza e convinzione come nella primavera del 2023, quando bastò un infortunio in Nazionale di Osimhen per rompere il giocattolo perfetto di Spalletti.

Flash-forward fino al 2025: mentre Kvara flirtava e poi si sposava con il Psg, tutto più o meno in gran segreto, il Napoli ha ripreso e sorpassato a destra prima l’Atalanta e poi l’Inter. Ah, e nelle stesse settimane è stato assente – per infortunio – Alessandro Buongiorno: il miglior acquisto finalizzato nell’estate 2024.

Certo, nel frattempo Conte ha lavorato su David Neres, l’ha reso un ottimo sostituto di e per Kvara. Ma il punto è che, come detto, il Napoli è una squadra in missione. Tutti i calciatori che ci sono dentro, che hanno scelto di esserci, sono davvero coinvolti. Sono parte di un gruppo senza star ma duro come la roccia. Sanno cosa fare quando vengono chiamati in causa, e in questo senso le prestazioni di Juan Jesus e del redivivo Spinazzola rappresentano dei segnali inequivocabili.

Missione rinascita

Anche questo è un altro enorme punto in comune tra il Napoli di Conte e l’Italia 2006. Perché quella di Lippi era una squadra in missione. Si vedeva mentre giocava, si percepiva attraverso le dichiarazioni rese alla stampa. Era una questione di rivincite in atto, molti giocatori di quella Nazionale facevano parte di club coinvolti nei processi di Calciopoli, quindi c’era tutta la voglia del mondo di mettere da parte quello che stava succedendo nei tribunali. L’unico modo era vincere, e quella squadra ci riuscì.

Il Napoli di Conte è partito da presupposti diversi, in una condizione differente: doveva e deve riscattare un’annata balorda, ignobile. Doveva e deve dimostrare che tutto quello che è successo nel 2023/24 è stata una sorta di glitch, un errore di sistema. Per dirla in pochissime parole: doveva rinascere. Anche per legittimare a posteriori lo scudetto vinto nel 2023.

È su quelle macerie, su questa volontà di rivalsa, che Conte ha costruito un capolavoro. Ovviamente il lavoro sulla tattica e sul fisico pesano tantissimo, sono fondamentali. Ma è evidente che la ricostruzione del Napoli sia cominciata a partire dalla testa. E dall’idea che servisse un gruppo unito, inscalfibile, perché potesse andare a buon fine.

Kvaratskhelia e il suo sostituto

Riguardando tutto ciò che è successo da questa prospettiva, è chiaro che la cessione di Kvaratskhelia e il lavoro fatto per sostituirlo debbano essere giudicate in modo differente. Nel senso: Conte ha lavorato fin dal primo giorno per (ri)costruire una squadra, nel senso più profondo del termine. L’ha fatto cercando di convincere Kvara, non ci è riuscito, l’ha raccontato pubblicamente. E così ha accettato di rinunciare al suo gioiello più prezioso pur di mantenere inalterati certi equilibri.

Anche la scelta di non svenarsi per l’erede dell’attaccante georgiano – si legga soprattutto alla voce-Garnacho – deve essere letta anche da questa prospettiva. L’ha detto in modo chiaro Giovanni Manna nella conferenza stampa che ha tenuto pochi giorni fa, il Napoli ha deciso di non stravolgere il suo progetto. Certo, non c’è dubbio: anche le esigenze di bilancio – soprattutto se pensiamo che Kvara, a causa dell’ormai famigerato articolo 17, sarebbe potuto andar via per un indennizzo poco più che ridicolo – hanno avuto un certo peso sulle strategie di mercato del Napoli. Ma il discorso sull’unità di gruppo, di questo gruppo, non va messo in secondo piano. Dopotutto Conte non gioca a Football Manager, deve gestire degli uomini reali. In carne e ossa.

Il migliore al mondo

In questo senso, e in situazioni del genere, il tecnico del Napoli non ha rivali al mondo. Basti pensare alla sua Juventus 2011/12, altra squadra in missione – anche se ricca di campioni: Buffon, Bonucci, Chiellini, Barzagli, Pirlo, Vidal – tirata su dalle macerie del post-Calciopoli. Oppure, e forse si tratta di un paragone ancora più calzante, all’Italia del 2016: quella Nazionale, la Nazionale più scarsa della storia calcistica del nostro Paese, arrivò a un passo dalla semifinale europea dopo aver battuto la Spagna e giocato alla pari con la Germania. Pure quella era una squadra in missione. In cui Giaccherini, Pellé, Éder, Parolo, Florenzi, Sturaro, Darmian sembravano essere due o tre volte più forti rispetto alle qualità che avevano sempre espresso.

A Napoli, oggi, Conte sta facendo lo stesso tipo di lavoro. Va detto che il materiale a sua disposizione è decisamente più pregiato, basterebbe citare solo il trio di centrocampo Anguissa-Lobotka-McTominay. Ma c’è anche da ricordare che il talento, da solo, non basta. Il calcio, oggi più che mai, non è un gioco di ruolo in cui basta sommare algebricamente le qualità dei calciatori. Bisogna trovare il modo per incastrare tutte queste qualità in un sistema, poi bisogna trovare il modo per convincere quei calciatori a credere in quel sistema. E nel farlo bisogna anche creare un rapporto con i calciatori e tra i calciatori, in modo che tutto il processo non si inceppi.

Conclusioni

Il nocciolo di tutto questo ragionamento sta nel fatto che il Napoli non si sia ancora inceppato. E che non l’abbia ancora fatto proprio in quanto squadra, proprio perché Conte ha saputo stuzzicare nel modo giusto tutti gli ego di tutti gli uomini che ha a disposizione. Il tecnico salentino non ha messo nessuno al centro della scena, forse perché – una volta perso Kvara, e il Napoli non l’ha perso nel giorno della cessione al Psg – in realtà non c’era e non c’è ancora chi potesse prendersi il ruolo di leader, di protagonista assoluto. Di solito questa è una mancanza, Conte l’ha trasformata in un punto di forza.

Magari per Napoli-città questo cambiamento così profondo – soprattutto se ripensiamo all’idea del messia salvifico: cosa sarebbero stati Garnacho e/o Adeyemi, se non dei messia salvifici? –  sarà più difficile da capire e da metabolizzare. Magari alla fine un eventuale scudetto verrà celebrato e poi ricordato come lo scudetto di Conte e della sua squadra. Di un gruppo nato all’inferno, forgiato nella sofferenza, indurito dal dolore. In fondo, a pensarci bene, sarebbe anche giusto così.

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