ilNapolista

Non stanno distruggendo il calcio italiano in maniera casuale, stanno seguendo un preciso protocollo

Nell’era dell’Hd e del controllo orwelliano, l’arbitro è l’unico a non sapere che il pallone è uscito di mezzo metro né del rigore di Gatti: decidono altri per lui

Non stanno distruggendo il calcio italiano in maniera casuale, stanno seguendo un preciso protocollo

Non stanno distruggendo il calcio italiano in maniera casuale, stanno seguendo un preciso protocollo

Nel 1890 si giocava a calcio già da una trentina d’anni, specialmente nel Regno Unito. C’erano già le squadre di undici giocatori, un portiere che poteva prendere la palla con le mani e da un paio d’anni c’erano anche le traverse, che avevano sostituito le cordicelle che fino a quel momento delimitavano la parte alta della porta.

Non c’era ancora, però, il calcio di rigore.

I falli in area erano sanzionati con un semplice calcio di punizione e questo faceva sentire i difensori autorizzati a fare di tutto pur di evitare un gol, comprese entratacce sugli attaccanti e vere e proprie parate.

A William McCrum, portiere del Milford Everton FC, squadra del campionato nordirlandese, nonché figlio dell’Alto Sceriffo della Contea di Armagh e futuro giudice di pace, questo modo di difendere sembrava ingiusto e così, durante una partita in cui i suoi compagni avevano evidentemente esagerato, si inventò la massima punizione: un tiro calciato all’interno dell’area (più avanti si stabilirà che il dischetto verrà posizionato a 11 metri dalla porta, in realtà un po’ meno, per questione di unità di misura), senza barriera.

La regola autoprodotta fu immediatamente proposta all’International Football Association Board, la quale però inizialmente non ne volle sapere. A convincere l’austero Board regolatore fu quello che accadde durante Stoke City-Notts County di Coppa d’Inghilterra l’anno successivo, quando a pochi minuti dal termine un difensore del Notts, per difendere l’1-0, decise di parare con le mani il tiro del pareggio dello Stoke City. Dalla conseguente punizione battuta con la palla a pochi centimetri dalla linea di porta e da tutto il Notts non scaturì il pareggio dello Stoke, ma un’ondata di indignazione che spinse l’International Football Association Board ad approvare, il 2 giugno 1891, la regola n.13, ovvero il calcio di rigore.

Nato per risolvere un problema di giustizia, quindi, in realtà il rigore si rivelerà, insieme al fuorigioco, la più grande e potente fucina di polemiche che l’uomo abbia inventato. Nel calcio si vince spesso con un solo gol di scarto e quindi da un rigore dipendono una vittoria, un campionato, una coppa o una retrocessione.

Dentro o fuori dall’area? Si è buttato o è caduto? Il fallo di mani era volontario o involontario? Il difensore ha toccato prima la palla o l’avversario? Con queste domande è cresciuto qualunque appassionato di calcio in giro per il mondo negli ultimi 130 anni, su queste domande si sono costruiti articoli di giornali, reportage e poi, col tempo, trasmissioni televisive, interviste, la moviola, il telebeam e le ricostruzioni 3D.

Non si contano quelli decisivi, quelli sbagliati e quelli passati alla storia per il modo in cui sono stati tirati. Osvaldo Soriano ha raccontato quello più lungo del mondo, De Gregori ci ha chiesto di non giudicare Nino da questo particolare, mentre per Pelè era un modo meschino di segnare e la voce del grande Boskov, nel tentativo di spegnere le polemiche, torna ogni tanto a ricordarci aristotelicamente che “Rigore è quando arbitro fischia”.

Il rigore è una cosa seria, o meglio lo è stata fino a qualche anno fa, quando in Italia la regola è stata stravolta nella sua funzione e si è iniziata ad usarla non per punire un fallo grave commesso per evitare di subire un gol, ma una qualunque piccola infrazione commessa all’interno dell’area di rigore.

È nato così il rigorino.

Un diminutivo fuorviante, perché in realtà il rigore rimane decisivo come è sempre stato e ad essere diminuite sono solo l’intensità e la gravità dei falli che lo determinano. Più che di rigorini dovremmo parlare di falletti, fallucci, di manine e tocchetti, perché da qualche anno a questa parte, e in particolare dall’introduzione del Var, abbiamo visto assegnare rigori per i quali il buon McCrum si starà rivoltando nella tomba: sfioramenti di mani e di tacchetti, contatti avvenuti dopo che il pallone era stato calciato, tuffi, simulazioni plateali e chi più ne ha, più ne metta.

Se il sonno della ragione genera i mostri, il soliloquio degli arbitri ha generato la parodia di una regola del calcio e da quando le giacchette nere vengono in tv a spiegarci i motivi delle decisioni che prendono e i protocolli che si sono inventati, tutto ha assunto i contorni di una discussione surreale che si allontana dal calcio man mano che passa il tempo.

Così siamo arrivati all’insostenibile irragionevolezza del protocollo Var, secondo il quale un tocco di mano di un attaccante è sempre punito “ancorché accidentale”, mentre per quello di un difensore bisogna contare i centimetri che separano il punto di contatto dalla spalla, distinguere la dinamica dalla marcatura e la prevedibilità dall’inaspettato, misurare l’angolo di apertura di un braccio, sceverare il congruo dall’incongruo. La recente discussione tra Guida e Maggioni in sala Var, diciamolo, non ha niente da invidiare alle più astruse e bizantine disquisizioni sul sesso degli angeli.

Tomori può essere espulso per un fallo commesso su un giocatore in palese fuorigioco e “il Var non può intervenire”. Abbiamo le telecamere ad alta definizione e tutte le immagini possibili, ma non possiamo avvertire l’arbitro che un pallone è uscito di mezzo metro, così come non lo possiamo richiamare per una palese simulazione perché “un contatto seppur minimo c’è stato” e, come ci spiegano quotidianamente gli apologeti degli arbitri, “l’intensità va giudicata in campo”.

Peccato che poi quello che l’arbitro non ha visto, come nel tocco di mani felino della settimana scorsa, venga allegramente giudicato in sala Var, lasciando Abisso all’oscuro di quel che è avvenuto.

Secondo Publio Cornelio Tacito, quanto più numerose sono le leggi, tanto più è degradato uno Stato. Mutatis mutandis, il calcio italiano è a pezzi. Ma non è lo stanno distruggendo in maniera casuale. Stanno seguendo un preciso protocollo.

 

ilnapolista © riproduzione riservata