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Oggi Kafka scriverebbe Il Protocollo, mica Il Processo. La burocrazia italiana s’è mangiata la Var

In Serie A abbiamo creato un mostro: ha vinto il cavillo, l’ottusità. La Var è diventata l’equivalente del certificato di esistenza in vita

Oggi Kafka scriverebbe Il Protocollo, mica Il Processo. La burocrazia italiana s’è mangiata la Var

Oggi Kafka scriverebbe Il Protocollo, mica Il Processo. La burocrazia italiana s’è mangiata la Var

Noa Lang non lo sa, che s’è salvato sol perché olandese che gioca in Olanda. Noa Lang ignora che se avesse provato a controllare il pallone come ha fatto contro la Juventus, un po’ col fianco un po’ sfiorando con un braccio (innescando poi l’1-1 di Perisic e la crisi isterica degli juventini che non guardavano Sanremo) in territorio italiano, sarebbe stato tradotto nelle patrie galere per direttissima: il limbo che sospende la vita umana per lunghi minuti mentre la Var procede all’esame autoptico dell’azione per determinarne il proseguimento – della vita – o meno. La fine di tutto, di un gol, dell’esultanza, ma più che altro del buonsenso.

E infatti in telecronaca su Sky, Giancarlo Marocchi è caduto dalla seggiola strepitando “Mano, fallo di mano nettissimo!“. Pare lo abbiano avvistato ore dopo che ululava al Var, in un’area di sosta della Milano-Rogoredo. Aveva ragione Marocchi, in qualche modo. Perché all’estero affrontano il buro-calcio con troppa leggerezza, un’elasticità patologica che per noi ossessivo-compulsivi del fermo immagine è violenza pura. Da noi quella parvenza di sfioramento con un arto vietato dal codice, l’avremmo scandagliata al microscopio con le avveniristiche tecnologie del Centro di Lissone: usano il Bosone di Higgs per una migliore definizione del contatto, con un apposito acceleratore di particelle. Poi mandano il verdetto via fax al quarto uomo, ovviamente. Il quale vidima con marca da bollo, e manda una pec al povero arbitro.

In questi giorni più che mai ci rendiamo conto che la Var ha trovato in Italia una perversa declinazione: nel Paese ruminato dalla burocrazia, dalla cultura del cavillo, uno strumento di semplificazione s’è trasformato in un incubo di sofisticati bizantinismi. Non aspettavamo altro.

L’ha scritto benissimo qualche tempo fa Ultimo Uomo: “il Var non solo non evita l’errore ma lo causa. Durante la revisione col Var possiamo vedere questi arbitri rallentare l’immagine fino a fermarla per vedere se riescono a trovare il contatto tra un piede e l’altro. Solo che ciò che non è falloso in un regime di dinamismo, in presa diretta, può diventare falloso in un regime di staticità, che però non è più giusto. I regolamenti sui contatti in area di rigore, specie quelli di mano, sono impazziti in questi anni, per aggiustarsi attorno all’occhio del Var”.

Per inseguire la scarnificazione dell’azione frame by frame cerchiamo falli che prima non esistevano, e rigori ed espulsioni dove prima semplicemente non c’erano. E l’abbiamo fatto alla maniera italiana, ovviamente: complicando tutto, regolamentando, arzigogolando.

Oggi Kafka scriverebbe Il Protocollo, mica Il Processo.

All’estero, dove la Var infatti è sopportata poco meno d’un grappolo emorroidario, pur nelle polemiche resistono facendo prevalere un minimo di logica e di ragione. In Serie A no: l’ottusità al comando. Tomori espulso per un fallo su un giocatore in fuorigioco è un caso di scuola. “Eh ma la Var non può intervenire” è Italia in purezza. È il verdetto della stupidità. È il certificato di esistenza in vita per provare che sei vivo, o quello “di esistenza del registro” che alcune amministrazioni chiedevano per certificare che esistesse… un registro pubblico, o quello “di identità personale” per confermare che tu sei proprio tu. È quella sovrastruttura ammorbante che nella sua derivazione pallonara è diventata una palude.

Non solo il tifoso, ma anche gli arbitri, sono una vittima del mostro. Le decisioni spesso li sorvolano: la moviola prende la via dei mille uffici, come al comune. Intanto lui se ne sta lì, in campo, a placare i giocatori che azzannano. Nell’attesa della suddetta metaforica pec dall’alto: “è rigore”. Sicuro? Non hanno ancora inventato la Var d’appello, e i tre gradi di giudizio, ma siamo lì.

Non sono loro, gli arbitri, che chiedono l’aiuto da casa (come nel basket, per esempio), ma vengono “convocati” al video. E alla fine abbozzano, come quelli che, sfiniti dal pantano della pubblica amministrazione, pagano due volte le tasse. Per star tranquilli. È fallo, ma vi prego: basta. Liberateci.

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