ilNapolista

Foreman: «Alì mi fece male col destro, quale guerra di nervi. La boxe è un lavoro, non più difficile di altri»

L’Equipe ricorda con un’intervista del 2003 il grande pugile morto a 76 anni: «La mia fede è nata dopo una visione notturna, prima non credevo in Dio»

Foreman: «Alì mi fece male col destro, quale guerra di nervi. La boxe è un lavoro, non più difficile di altri»
(FILES) In this photo taken on October 29, 1974 in Kinshasa US heavyweight boxing champion George Foreman gestures during the weigh-in on the eve of the heavyweight world championship boxing match Muhammad Ali against Muhammad Ali known as the "Rumble in the Jungle". Former heavyweight champion George Foreman, who lost to Muhammad Ali in boxing's iconic 1974 "Rumble in the Jungle" before reclaiming the title two decades later, died on March 21, 2025 aged 76, his family said. (Photo by AFP)

George Foreman, soprannominato Big George, una leggenda della boxe, due volte campione del mondo dei pesi massimi. È scomparso ieri all’età 76 anni. La sua prima sconfitta da professionista arriva per mano di Muhammad Ali. L’Equipe ripubblica l’intervista fatta a Foreman nel 2003. “Allora 54enne, tornava a Parigi per la prima volta da quando lui e la moglie vi erano andati per consolarsi, due giorni dopo la sconfitta contro Muhammad Ali durante la leggendaria “Rumble in the Jungle” a Kinshasa nel 1974“.

Foreman: «Non dico che avrei potuto battere Ali, ma…»

Sei un predicatore, puoi essere un uomo di fede e un uomo d’affari allo stesso tempo?
«Mi piace l’idea di fare il predicatore, è la mia vera professione. Lo faccio per il conforto, il desiderio e la soddisfazione di piacere a Dio. Non l’ho mai fatto per soldi».

Come spieghi la crisi mistica di due dei più grandi pugili di questo secolo: tu e Muhammad Alì? Dipende dal fatto di essere nato durante o dopo la Seconda Guerra Mondiale (1942 per Ali, 1949 per Foreman)?
«Per me è piuttosto difficile spiegare cosa è successo a Muhammad Ali, ma per quanto mi riguarda è stato più forte di me. Ho avuto un’esperienza drammatica nel 1977. Prima di quella data, non credevo in Dio o nella religione. Ma una notte ho avuto una visione in cui ero morto, morto e vivo allo stesso tempo, fatto a pezzi. Ero spaventato, ma avevo la profonda convinzione che Dio fosse venuto a salvarmi. Per dieci anni mi sono costretto a tenere questa storia per me. Questo è tutto ciò che so sulla religione».

È questo il risultato della tua dura esperienza sul ring, del profondo dolore fisico e dello sforzo interiore?
«Sinceramente, la boxe è solo un lavoro. Certo, bisogna essere in perfette condizioni fisiche, ma non è più difficile di qualsiasi altro lavoro. Essere un pugile non mi conferisce una forza o una sensibilità superiori. La differenza sta nell’impegno, nell’investimento personale. Ecco cosa distingue un semplice fornaio da un maestro pasticcere che trasmetterà le sue conoscenze in un libro di cucina. Ho incontrato atei che affermano di non credere in Dio o nella religione, ma li ho visti rischiare la vita per salvare la gente da un uragano o versare il loro sangue in un terremoto. La fede è impegno, va oltre le nozioni di razza, le convinzioni politiche, il senso di devozione».

La madre, Nancy Ree, lo ha cresciuto nella non violenza. Nel 1968, mentre gareggiavi ai Giochi del Messico, lei guardava la TV, più preoccupata che tu non facessi male a nessuno che della tua vittoria…
«Mi conosceva bene. Quando ho iniziato a fare boxe, lei aveva sempre paura che potessi perdere il controllo e fare male a qualcuno. Ha sempre avuto questa paura».

Cosa ti ha insegnato picchiare la gente?
«All’inizio ho avuto l’istinto omicida. Volevo distruggere tutti i miei avversari. I ragazzi si preparavano a picchiarmi, io mi esercitavo ad uccidere. Sono stato un idiota. Più avanti, con la professione, ho imparato a non colpire mai con odio. Ho capito che la boxe era uno sport onorevole, che la cosa importante non era essere il migliore, ma dare il meglio di sé. La boxe mi ha insegnato a impegnarmi, a dare me stesso senza perdere la mia anima. Preparatevi bene, fate del vostro meglio e ciò che deve accadere accadrà».

È vero che da adolescente ti sei innamorato di Muhammad Ali?
«Sì. Ero un ragazzino molto giovane. All’epoca si chiamava Cassius Clay. Recitava poesie, canzoni, era elegante. Non avevamo mai visto nessuno che ci somigliasse e che dicesse che eravamo belli. Lo amavamo tutti (evita di usare i termini “nero” o “afroamericano”). Quando ho iniziato a fare boxe, ho iniziato a provare odio. Passarono gli anni e vidi i miei figli appassionarsi a quello stesso uomo, imitarlo, raccontare le sue barzellette… Ciò mi permise di riscoprire il mio amore per lui».

Anche se è stato lui a infliggerti la prima sconfitta?
«Quando ho perso a Kinshasa, lo ammetto, ne sono rimasto devastato: fisicamente e psicologicamente. Ho perso tutto contro Ali: il mio titolo mondiale e, cosa ancora peggiore, molte cose che avevo costruito dentro di me. Ero devastato. Ci ho messo molto tempo per superarlo».

Leggi anche: La morte di Foreman. «Alì mi devastò, ero certo di metterlo ko in due round. Poi diventammo grandi amici»

Per quanto ?
«Anni e anni… Ho perso nel 1974, mi ha battuto, mi ha messo ko. Ho provato ad alzarmi, per orgoglio. Non dico che avrei potuto battere Ali, ma avrei potuto rimettermi in piedi se l’arbitro non mi avesse dichiarato sconfitto così in fretta».

Foreman eri fisicamente superiore, ma Ali ha vinto la guerra dei nervi…
«Questo è quello che dice la gente, ma io posso dirti che mi ha fatto male, mi ha colpito con dei seri colpi di destro (ride). Mi ha fatto male! Mi sarebbe piaciuta la sua guerra di nervi…»

ilnapolista © riproduzione riservata