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Il tempo di Hamsik a Napoli: una bandiera che non ha mai giurato amore, è rimasto e basta

Il 5 luglio, a Bratislava, giocherà la sua ultima partita. Il 5 luglio per i napoletani non è un giorno qualsiasi. Eppure lo accolsero con diffidenza

Il tempo di Hamsik a Napoli: una bandiera che non ha mai giurato amore, è rimasto e basta
Napoli's midfielder Marek Hamsik of Slovakia reacts during their Series A football match against Juventus at Turin's Olympic Stadium on February 28, 2009. AFP PHOTO/ Filippo MONTEFORTE (Photo by FILIPPO MONTEFORTE / AFP)

Il tempo di Hamsik a Napoli: una bandiera che non ha mai giurato amore, è rimasto e basta

Torino, 31 ottobre 2009. L’aria è densa di umidità, il fiato genera piccole nuvole di nebbia. La notte di Halloween è appena iniziata, ma dentro lo Stadio Olimpico non c’è nulla di festoso. Ci sono solo il frastuono delle curve, la tensione che è una corda tesa. La Juventus è avanti 2-0, la partita sembra finita. È la normalità delle cose: il Napoli qui perde da ventuno anni. È un’abitudine, come il cielo che si fa buio ogni sera. Poi però qualcosa si incrina.

Jesus Dátolo, che dalla panchina si è trasferito sul campo un minuto prima, prende il pallone sulla sinistra, alza la testa e lo mette dentro con la forza della disperazione. Una palla che attraversa l’area come un presagio. Lì, nel cuore della mischia, Marek Hamsik si materializza dal nulla. Ci arriva in corsa, con il tempismo di chi sente il gioco prima ancora di vederlo. Il destro è una coltellata, il pallone sbatte sotto la traversa e finisce dentro. Il ragazzo non esulta subito, corre qualche passo, poi si gira verso i tifosi del Napoli stipati nel settore ospiti. Stringe la maglia tra le mani, urla. Il Napoli è vivo.

Cinque minuti dopo arriva il pareggio, ancora Dátolo. L’aria cambia. Il tempo cambia. Minuto 82. Ancora lui. Scappa di nuovo a sinistra, crossa teso. Il pallone arriva in mezzo, la difesa della Juve prova ad allontanarlo, ma è solo un rimando. La palla rimbalza a dieci metri dalla linea di porta e trova un solo piede pronto a domarla. Hamsik colpisce il pallone come se fosse l’unica cosa che abbia mai saputo fare in vita sua. La rete si dilata, il Napoli è avanti. È successo davvero.

Hamsik parte in una corsa liberatoria, le vene del collo tese, il viso stravolto dall’urlo. Corre sotto i tifosi, in quel momento è uno di loro. Il Napoli non vinceva a Torino da una vita. Ora ha vinto. In quel momento, per la prima volta, Marek non è più solo un giocatore giovane e promettente. È diventato Marekiaro.

Il tempo di Hamsik

Il tempo nel calcio si misura in stagioni, in cicli, in partite che si ripetono fino a consumarsi. Alcuni giocatori lo attraversano come satelliti erranti, arrivano, lasciano il segno, se ne vanno. Altri, invece, diventano il tempo stesso. Hamsik è stato questo per Napoli: una presenza costante in un mondo che cambia di continuo. Ha vissuto tre generazioni di squadre, ha visto compagni andare e venire, ha stretto fasce da capitano e ha abbassato la testa nei momenti di sconfitta.

Quando arriva in città, nel 2007, Napoli è un club appena tornato alla vita, ancora segnato dalle cicatrici della Serie C. Quando se ne va, dodici anni dopo, è una squadra stabilmente tra le grandi d’Europa, una delle poche realtà capaci di impensierire la Juventus in Italia.

Eppure, non c’è mai stato un prima e un dopo Hamsik. Perché lui non è stato una rottura, non ha cambiato la storia con un gesto eclatante, non ha acceso rivoluzioni. È stato un tessuto connettivo. Un ponte silenzioso tra epoche diverse. Ma cosa significa essere una costante in un luogo che cambia continuamente? Vuol dire restare. Non per inerzia, ma per scelta.

L’uomo di Castel Volturno

Marek non ha mai abitato in uno dei palazzi affacciati sul lungomare, né nelle ville immerse nella quiete di Posillipo. Napoli l’ha vissuta da dentro, senza però mai farne parte davvero. Ha scelto Castel Volturno, un luogo sospeso. È il posto dove il Napoli si allena, il luogo in cui la squadra si isola dal caos della città, dove il calcio torna ad essere solo pallone, corsa, sudore. Lì Hamsik ha costruito il suo rifugio. Non è stata una scelta casuale. Il litorale domizio non offre panorami da cartolina, né movida, né locali di lusso. Ma offre tranquillità, persino silenzio, una routine. Per Hamsik, è tutto ciò che serve.

Si alza presto, va ad allenarsi prima di tutti, torna a casa dai figli. Niente mondanità, niente eccessi. Marek non è stato un napoletano d’adozione, non ha cercato di esserlo. Non ha mai avuto bisogno di tradurre il suo amore per la città in gesti plateali. Lo ha fatto restando. Lo ha fatto scegliendo, ogni anno, di non andarsene.

La fretta di crescere

Marek non è mai stato giovane. O meglio, lo è stato come lo sono certi ragazzi che non hanno il tempo di essere acerbi. Guardandolo giocare a diciotto anni, sembrava già pronto per qualsiasi cosa. Guardandolo a trentuno, sembrava lo stesso di sempre.

La sua carriera inizia in Slovacchia, ma non dura molto. A cinque anni entra nelle giovanili del Jupie Podlavice, una piccola società a conduzione familiare. Gioca in ogni ruolo, segna cento gol a stagione. In poco tempo lo prende lo Slovan Bratislava, il club più importante del paese. A sedici anni è già in prima squadra. È magro, ha i capelli lisci e spettinati, la faccia di chi non ha ancora finito di crescere. Ma in campo ha una maturità spaventosa. Non sbaglia mai una scelta, ha una visione del gioco che non appartiene ai suoi coetanei.

Il Brescia lo nota durante un torneo giovanile in Francia. Cercavano un attaccante, trovano un centrocampista. Gli offrono un contratto, lui accetta senza esitazioni. Non ha paura di andarsene di casa, di cambiare tutto. Vuole solo giocare. Arriva in Italia nel 2004, ha diciassette anni e un borsone pieno di maglie troppo larghe per il suo corpo ancora non definitivo. A vederlo così, sembra un ragazzino catapultato in un mondo più grande di lui. Poi entra in campo, e la sensazione scompare.

Sotto la guida di Serse Cosmi, diventa subito titolare. Segna, si inserisce, si muove senza sosta. Gioca con la sicurezza di chi ha già capito tutto. L’anno successivo, il Brescia retrocede in Serie B, ma Hamsik non si ferma. Continua a giocare come se nulla fosse cambiato. Quando lo prende il Napoli, nell’estate del 2007, non è una promessa. È già un giocatore fatto e finito.

Una giornata speciale

Quando il ragazzo arriva a Napoli, il 28 giugno 2007, nessuno lo aspetta davvero. La città è appena tornata in Serie A dopo sei anni di purgatorio. I tifosi sognano nomi altisonanti, campioni affermati, qualcuno che possa riportare il Napoli nell’élite del calcio italiano. Ma al San Paolo, quel giorno, si presentano solo un giovane slovacco con una cresta timida e un argentino dal fisico compatto e lo sguardo sveglio. Di cognome fa Lavezzi.

Non c’è entusiasmo. Applausi, sì, ma pure mormorii. Qualcuno chiede a gran voce a De Laurentiis di smetterla con le “scommesse” e di comprare giocatori veri. Non è l’accoglienza che ci si aspetterebbe per giocatori che stanno per riscrivere la storia del club.

Ma Hamsik non è tipo da parole. È uno che si presenta in campo, senza promesse né proclami. Lo fa il giorno di Ferragosto, in Coppa Italia contro il Cesena. La squadra è ancora in rodaggio, le gambe sono pesanti come sacchi riempiti di sabbia. Le prime due reti del nuovo corso sono roba di Marek. Prima un cross da destra che trova Calaiò pronto a colpire. Poi Lavezzi gli trasmette palla dalla sinistra e lui, di prima, utilizza il piatto destro per mandarla troppo vicino al palo perché il portiere possa raggiungerla. Dopo il suo gol, si rivolge ai tifosi dubbiosi e con i palmi delle mani li invita ad esultare ancora di più, di urlare per il Napoli rinato.

Il calcio di Marek

Ci sono giocatori che si impongono con il talento, con la tecnica sopraffina, con la capacità di fare cose che gli altri non sanno nemmeno immaginare. Ci sono quelli che si fanno strada con la forza, con la velocità, con la resistenza. Hamsik ha costruito la sua carriera con qualcosa di più sottile: la comprensione del gioco. Non è mai stato il più veloce, né il più tecnico. Non aveva la potenza di un Gerrard, la verticalità fenomenale di Kaká, la visione di Iniesta. Ma sapeva sempre dove stare.

Non era un trequartista, ma segnava come un attaccante. Non era un regista, ma faceva giocare meglio chi gli stava accanto. Arrivava puntuale dentro l’area, come se fosse guidato da un filo invisibile. Era un giocatore dannatamente logico, eppure non controllabile.
Il 7 marzo del 2017, in Champions League contro il Real Madrid, al San Paolo, il suo calcio segna un apice. Per tutto il primo tempo, Luka Modric lo insegue senza riuscire mai a fermarlo. Hamsik si muove tra le linee, detta i tempi, smista il pallone con la semplicità di chi ha a disposizione sempre un secondo in più rispetto agli altri. Poi, in un lampo, il Napoli passa in vantaggio. Hamsik riceve palla sulla trequarti, la accarezza con decisione e perché ha intravisto Mertens tagliare in area. Non ha bisogno di pensarci, lo serve con un tocco di prima, che non rallenta il tempo ma lo manipola. È un assist perfetto, il belga segna. Il San Paolo gode.

Non c’è un gesto tecnico straordinario, nessun numero da circo. Solo una lettura perfetta della situazione, il passaggio giusto nel momento giusto. Anzi, un attimo prima. É il manifesto dello stile futuristico del calcio dello slovacco con la cresta. Il Napoli perderà quella partita – troppo superiore quel Real di fuoriclasse assoluti – ma la dimostrazione di grandezza resta.

Bandiera senza retorica

Napoli è una città che sa divorare i suoi idoli. Li ama, li esalta, li trasforma in leggende, ma poi li lascia andare. A volte con rimpianto, a volte con rancore. La storia recente della squadra è piena di addii dolorosi: Lavezzi, Cavani, Higuain, Insigne, Koulibaly. Hamsik ha resistito più di tutti. E lo ha fatto diventando il recordman assoluto di presenze con il Napoli: 520 partite ufficiali, superando persino Bruscolotti. Ha segnato 121 gol in maglia azzurra, più di Maradona, prima di essere superato da Mertens.

Per anni, mentre i compagni se ne andavano, lui restava. Non perché non avesse offerte. Il Milan lo voleva, la Juventus ci ha pensato, in Premier League sarebbe stato perfetto. Ma lui non ha mai fatto un passo verso l’uscita. “Avevo tante occasioni per andare via”, ha raccontato più volte. “Ma qui stavo bene. E quando stai bene in un posto, perché dovresti andartene?” Nel calcio moderno, al netto della retorica, questa non è una cosa che va inquadrata come normale. Eppure il 17 non ha mai cercato di essere un simbolo a tutti i costi. Non ha mai spergiurato che sarebbe rimasto per sempre. È rimasto e basta. E proprio per questo è stato una bandiera.

Quando parte per la Cina, nel febbraio del 2019, lo fa con la consapevolezza che il suo tempo a Napoli è finito. Non c’è più spazio per lui, la squadra è ormai un’altra. A Napoli, a volte, si diceva che Hamsik fosse un essere umano troppo gentile per essere un vero capitano. Che nei momenti difficili avrebbe dovuto battere i pugni sul tavolo, prendersi la squadra sulle spalle. Che avrebbe dovuto essere meno educato, meno corretto. Ma Marek non è mai cambiato. Anche quando la fascia è passata sul suo braccio, dopo l’addio di Paolo Cannavaro, ha continuato a essere se stesso. E alla fine, senza proclami, senza dichiarazioni d’effetto, è diventato uno dei capitani più rispettati della storia del Napoli.

La ferita

Alcune sconfitte si dimenticano in fretta, altre restano addosso e non vanno più via. Per Marek, la partita contro la Fiorentina del 29 aprile 2018 è una di quelle. Il Napoli è nel pieno della sua stagione più splendente. Ha raggiunto quota 91 punti in campionato, ha giocato un calcio che ha incantato l’Europa, ha sfiorato lo scudetto più di chiunque altro dopo Maradona. Dopo la vittoria contro la Juventus a Torino, sette giorni prima, la città intera ha creduto che fosse finalmente arrivato il momento.

Ma poi è arrivata Firenze. Poche ore prima della partita, la Juventus vince a San Siro contro l’Inter, ribaltando il risultato negli ultimi minuti con due gol sporchi e pesanti come macigni. Il Napoli scende in campo sapendo che non può più sbagliare. Pochi minuti e Koulibaly viene espulso. Poi la Fiorentina segna. Una, due, tre volte. E il sogno finisce lì.

A fine partita, Hamsik non dice una parola. Cammina lentamente verso la curva, con la maglia incollata addosso dal sudore. Ha la testa bassa, gli occhi vuoti. Sa che quella era l’ultima possibilità.

Ci sono giocatori che lasciano una squadra con una grande cerimonia d’addio. Uno stadio pieno, un giro di campo, lacrime, applausi. Hamsik non ha avuto niente di tutto questo. Il suo addio al Napoli è stato quasi del tutto silenzioso. Era febbraio 2019. Il Napoli non lottava più per lo scudetto, Ancelotti stava già pensando a un futuro senza di lui. Quando arriva l’offerta dalla Cina, la società non fa niente per trattenerlo. Il capitano capisce che il suo tempo è terminato.

Qualche giorno dopo, il Napoli gioca la sua prima partita senza di lui. Lo speaker dello stadio annuncia la formazione, e quando arriva al numero 17 si sente un vuoto. Per la prima volta in dodici anni, non c’è più Marek.

Ventinove galline

Dopo il calcio, molti ex giocatori cercano un nuovo ruolo nello stesso mondo: diventano allenatori, dirigenti, opinionisti. Alcuni provano a stare lontani, ma finiscono sempre per tornare. Hamsik ha scelto un’altra strada. Oggi vive in Slovacchia, vicino a Banská Bystrica, in una grande tenuta immersa nella natura. Qui, tra campi e boschi, ha costruito la sua nuova vita. Alleva galline. Ne ha ventinove, tutte in un pollaio ultra-moderno, con porte scorrevoli automatiche, ventilazione controllata, un sistema che le fa uscire all’alba senza bisogno che qualcuno vada ad aprire. “Sono trattate meglio di noi umani”, ha raccontato sorridendo ai cronisti più curiosi.

Le uova che producono sono più di quelle che la sua famiglia riesce a consumare. “Quasi due dozzine al giorno,” spiega. “A volte penso che potremmo aprire un negozio”. Ma le galline sono solo una parte della sua fattoria. Nella sua proprietà ci sono anche tre cani, un gatto, due tartarughe, sei porcellini d’India e due furetti. “Se potessimo, ne avremmo ancora di più,” ammette.

Hamsik, l’ex capitano del Napoli, recordman di presenze, oggi passa le giornate a controllare il benessere dei suoi animali. Eppure, anche qui, lontano dai riflettori, lontano dagli stadi, il calcio non l’ha mai davvero lasciato. Quando non è nel suo pollaio, è con la nazionale slovacca, dove lavora come vice-allenatore di Francesco Calzona. Oppure nella sua Academy, dove insegna il calcio ai ragazzi della sua città.

Ha sempre detto che un giorno gli piacerebbe allenare. Ma con calma. Senza fretta. Perché adesso, per la prima volta nella sua vita, Marek Hamsik può permettersi di prendersi il suo tempo e non deve più manipolare i minuti e gli attimi su un campo d’erba.

Il cerchio che si chiude

Il 5 luglio 2025, a Bratislava, Marek Hamsik giocherà la sua ultima partita. Sarà il suo addio ufficiale al calcio, una celebrazione della sua carriera. Ha scelto quella data con cura. Il 5 luglio, per i napoletani, non è un giorno qualsiasi: nel 1984, in quello stesso giorno, Diego Armando Maradona metteva per la prima volta il piede sinistro al San Paolo.

A Bratislava ci saranno molti dei suoi vecchi compagni: Lavezzi, Mertens, Cavani, Callejon. Ci sarà Paolo Cannavaro, ci sarà Walter Gargano, suo cognato e amico di una vita. Perché anche se la partita si gioca a chilometri di distanza, anche se il Maradona è lontano, l’anima di quella serata sarà molto azzurra.

Per una notte, tutto tornerà com’era. Hamsik correrà in campo con la sua falcata vagamente sgraziata ma dannatamente efficace, cercherà i suoi inserimenti, metterà qualche palla in profondità. Segnerà anche, questo è sicuro. E poi, alla fine, si fermerà. Si girerà verso il pubblico, guarderà le persone che lo hanno seguito in tutti questi anni. E capirà che non ha mai avuto bisogno di un trofeo in più.

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