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Totti: «Spalletti mi mise falso nove a Genova perché non avevamo attaccanti. Da lì non ha cambiato più»

A Cronache di Spogliatoio rivela di un’offerta per tornare a giocare: «Non ho mai detto la squadra per rispetto dell’allenatore e del club»

Totti: «Spalletti mi mise falso nove a Genova perché non avevamo attaccanti. Da lì non ha cambiato più»
Db Milano 06/12/2019 - campionato di calcio serie A / Inter-Roma / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Francesco Totti

Francesco Totti ha rilasciato una lunga intervista ai microfoni di “Cronache di Spogliatoio“. L’ex 10 della Roma e della Nazionale si è raccontato tra passato, presente e futuro, rispolverando aneddoti e facendo considerazioni interessanti, nonché lasciandosi andare a qualche rivelazione. Vi riportiamo un estratto delle sue parole.

Francesco Totti a tutto campo

Francesco Totti ha avuto la fortuna di iniziare la sua carriera condividendo lo spogliatoio con il suo totem di riferimento, Giuseppe Giannini. «Sono cresciuto con l’idolo in casa, lo vedevo come un principe o un re. Ho cercato di rubargli movimenti, il modo in cui giocava e quello che faceva durante il giorno. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, è una persona straordinaria, mi ha dato tanti consigli. La prima volta che l’ho visto ho dormito con lui in ritiro, dormivo con un occhio chiuso e uno aperto, non pensavo mai potesse succedere», ha raccontato l’ex capitano giallorosso.

A proposito di Roma. «Ho iniziata a viverla dal momento in cui sono andato in Curva a 13-14 anni con mio fratello e mio cugino. Uscivamo la mattina con i panini con la frittata preparata da mamma intorno alle 10 di mattina, era una domenica diversa, dove c’era divertimento e facevi amicizia».

Dopodiché, Totti si è soffermato sulla sua prima azione in un derby: «Quando mi fece entrare Mazzone e presi il rigore da Negro. Mazzone mi disse di entrare e di divertirmi, ero giovane e non hai tanti pensieri». «Dopo li ho sentiti di più, erano derby pesanti e non volevi mai perdere, c’erano sfottò molto pesanti. I derby erano belli anche fuori dal campo. Prima si parlava già da mesi prima della partita, tanti tifosi preferivano vincere i due derby anziché lo scudetto. Io preferisco lo scudetto», ha aggiunto.

Sul suo passaggio a prima punta: «Inizialmente mi piaceva fare più assist che gol, andando avanti ho capito che erano più importanti. Ma essendo trequartista, il mio ruolo era mettere in condizione gli attaccanti di fare gol. Poi c’è stata una casualità, voluta o meno, che il mister Spalletti mi mette falso nove a Genova perché non avevamo attaccanti. Da lì non ha cambiato più modulo».

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Sul suo percorso: «In 25 anni di carriera non è semplice mantenersi o continuare su questi livelli, man man che andavo avanti prendevo più forza, più esperienza e più fiducia e credevo tanto in me stesso. Credendo in te stesso riesci a diventare qualcosa di diverso da altri. Essendo capitano hai una responsabilità diversa, la gente si aspettava tanto quindi dovevo dare il 101%. Andando avanti, mi divertivo ancora di più».

Totti è spesso identificato con la Capitale stessa, oltre che con la Roma. «La cosa più eclatante è la gente che si ferma e mi bacia i piedi, una cosa da pazzi. Non pensi che qualcuno faccia una cosa del genere. Anche il carcere: dovevamo andare a trovare i detenuti, c’era un ragazzo che una settimana prima doveva uscire ma sapendo che saremmo andati lì ha chiesto di restare una settimana in più per aspettarmi. Andare via? Alcune volte mi viene da pensarlo ma non posso mai lasciare questa città, mi identifico. Ci sono cresciuto e morirò qui, è grazie a loro che mi fanno sentire così importante».

Sulla partita d’addio all’Olimpico: «Non ho mai visto piangere Francesco così tanto prima, durante e dopo. Certe volte dovevo fingere. È stato un giorno bellissimo da una parte – un giorno che ogni giocatore vuole vivere – ma era un punto di arrivo, la fine di tutto. Non pensavo potesse succedere, speravo non arrivasse mai ma nel calcio c’è un inizio e una fine. È una giornata difficile da descrivere. Fare il giro di campo e vedere tutti piangere, ero contento e amareggiato perché già dal giorno dopo non sarebbe più successo. Il rettangolo verde è stato tutto per me, quello che sentivo lo trasmettevo su quel prato verde per far contenta questa gente, per far emozionare la gente. Mi esprimevo in campo: la cosa più semplice e più significativa per me. Le chiacchiere le porta via il vento».

Quel giorno, Totti, leggendo la lunga lettera di congedo, ammise di avere paura. «Ogni tanto mi torna. Noi calciatori siamo abituati a essere abitudinari, è tutto programmato. Non sapevo cosa volessi fare dopo, non era stata voluto. È stato all’improvviso ed è stata una bastonata pesantissima, ma era giusto che arrivasse. L’avrei vissuta diversamente e ammorbidita. Non me lo aspettavo, soprattutto il modo: inizialmente mi avevano detto una cosa e poi è stata viceversa, non voglio più parlarne. Non voglio vivere di rimpianti, quella giornata è stata indimenticabile e non ne ho fatta un’altra d’addio, non aveva senso».

Infine, il passaggio sul mancato rientro in campo (finora) e sul prossimo futuro: «C’è stato un incontro con alcune persone nell’ambito calcistico, con un calciatore con cui ho giocato che scherzosamente mi ha chiesto se potessi dare una mano. E io gli ho detto che gli voglio bene ma non sono un ragazzino, mi ha detto che se mi fossi allenato 2-3 mesi avrei potuto fare quella pazzia. Mi ha fatto scattare qualcosa e ho pensato di ricominciare ad allenarmi, mi sentivo bene e non avevo problemi fisici. Il fisico reagiva e l’ho chiamato: ‘Non sto male, ma mi serve un altro mese buono’. Mi ha detto che mi avrebbe aspettato. Poi niente, mi sono fermato e ho pensato che non sono andato in altre squadre quando potevo e poi fare 6 mesi in un’altra squadra non mi sembrava corretto. Rimanere con un’unica maglia, penso che nessun altro riuscirebbe a farlo. Io e Maldini, non ce ne sono tanti. Ho parlato con le 2-3 persone vicino a me, per rispetto di quello che ho fatto non sono andato avanti. È mancato tanto così, sarebbe stato diverso e impensabile, quello mi spingeva. Anche perché non avrei fatto brutte figure per quello che c’è in giro, potevo stare in un contesto di squadra e potevo aiutare i giovani. Non ho mai detto la squadra per rispetto dell’allenatore e del club. Ora basta altrimenti divento patetico e pesante. Certo che se dovesse chiamare la Roma ci penserei (ride, ndr)».

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