Alla Gazzetta: «Avrei avuto bisogno di aggiungere un super coach. Vorrei essere ricordato come un uomo vero che ha commesso degli errori e li ha pagati»

Marco Cecchinato nel 2018 arrivando in semifinale del Roland Garros dopo aver battuto Djokovic lanciò al tennis italiano un messaggio molto chiaro: si può fare. La Gazzetta dello Sport lo ha intervistato.
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Cecchinato: «Avrei avuto bisogno di aggiungere un super coach»
Marco, come ci era finito in Rwanda?
«Se me lo avessero detto tempo fa che avrei giocato lì, non ci avrei creduto. E invece… A inizio anno ho fatto una sfida con me stesso: dare il massimo per risalire in classifica (oggi è 362°, ndr) e disputare di nuovo le qualificazioni degli Slam. Se andrà male, a dicembre smetterò con la consapevolezza di aver fatto più di quello che avrei immaginato. Mi sono tolto soddisfazioni incredibili e ho coronato i due sogni da bambino: entrare nei primi 100 ed essere il numero 1 italiano».
Qual è il primo pensiero ricordando la vittoria su Djokovic?
«Fu una svolta per il tennis italiano: me lo riconoscono tanti giocatori. Dopo quella sconfitta Nole vinse tre Slam di fila. Il tie-break del quarto set fu pazzesco a livello di emozioni. Se fossi andato al quinto, avrei perso. Diedi davvero tutto me stesso. Ma il Ceck più forte credo sia stato quello che vinse a Buenos Aires nel 2019, in finale contro Schwartzman. Giocavo molto bene e mi esaltai in trasferta: insulti dal primo punto, calore, situazioni che mi caricavano».
Ha un rimpianto?
«Avrei avuto bisogno di aggiungere un super coach al mio team nel periodo migliore. Con Vagnozzi e Ferrara ho lavorato benissimo, ma Simone era alla sua prima esperienza. Mi sarebbe servita una figura diversa, che potesse cogliere certe debolezze del mio carattere e aiutarmi a superarle. La pressione mi ha sovrastato e poi io sono un po’ pigro, a volte rallentavo in allenamento mentre avrei avuto bisogno di spingere di più. Era un momento decisivo. Non mi sono montato la testa, ho seguito la mia indole. La facilità di gioco e la buona mano mi hanno un po’ fregato perché pensavo che sarebbe bastato. E invece no. Ripeto: colpa mia. Con Vagnozzi sono cresciuto tanto. Ferrara è stato un secondo papà: con lui avevo un rapporto a 360° e mi ha fatto vivere i sette anni migliori della carriera. In campo volavo. Poi, dopo la sconfitta con Mahut da due set a zero per me al Roland Garros 2019, mi sono affidato a Uros Vico, coach bravissimo e persona splendida. Ma non c’ero più: ero frastornato, troppo nervoso. Persi partite quasi vinte: ancora non capisco come».
Quando smetterà, come verrà ricordato?
«Come il tennista che con quella semifinale a Parigi lanciò un segnale importante. E come un uomo vero, che ha commesso degli errori, li ha pagati, ma non ha mai finto ed è sempre stato fedele a se stesso. Se mi stai antipatico, lo capisci in cinque minuti. Ma se mi entri nel cuore, ti do più di quello che posso».