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Javier Zanetti: «Quella volta che per scaramanzia Milito mi diede in braccio il figlio per 90 minuti»

Alla Süddeutsche: “Mio padre era muratore, si ammazzava di fatica. Sono cresciuto nella cultura del lavoro, alla ricerca della perfezione”

Javier Zanetti: «Quella volta che per scaramanzia Milito mi diede in braccio il figlio per 90 minuti»

Javier Zanetti è sempre stato composto e misurato come i suoi capelli perfettamente pettinati. Ancora adesso che dell’Inter è vicepresidente è capace di rilasciare alla Süddeutsche Zeitung una lunghissima intervista per la sfida con il Bayern Monaco senza dire praticamente nulla di corrosivo. Niente. E se elogia Inzaghi definendolo “piuttosto anonimo” (è un complimento, per Zanetti) uno di cui “non si sa molto. Parla attraverso le sue azioni e attraverso il gioco della sua squadra. Questa squadra lo ha seguito alla perfezione negli ultimi anni ed è costantemente migliorata” – racconta un episodio con il suo ex compagno Diego Milito.

In teoria dovevano essere “nemici”: uno, Milito,  veniva dal Racing de Avellaneda, l’altro, Zanetti, dai rivali dell’Independiente de Avellaneda. E figurarsi se c’era attrito: “Ho sempre avuto un ottimo rapporto con Diego, nonostante la rivalità con Avellaneda. C’è una famosa partita tra la Roma e la Sampdoria del 2010. L’ho guardata con Diego a casa sua. La Sampdoria era inizialmente in svantaggio e con una vittoria la Roma sarebbe rimasta in testa alla classifica. Quando è arrivato il pareggio, avevo il suo bambino in braccio perché il fattorino delle pizze aveva suonato il campanello… E poi non mi è stato permesso di lasciarlo andare fino al fischio finale. La Sampdoria ha vinto, siamo diventati capolista al posto della Roma e, in definitiva, campioni!”.

Zanetti dice che ha giocato così a lungo per la “ricerca della perfezione. Ho sempre cercato di prestare attenzione anche ai più piccoli dettagli. Dentro e fuori dal campo. E più invecchiavo, più ne sentivo il bisogno, perché il corpo richiedeva cure. Alla base di tutto questo, però, c’era una cultura del lavoro con cui ero nato. Ho visto quanto lavoravano duramente i miei genitori. Ciò lascia il segno. Vengo da Dock Sud a Buenos Aires, un quartiere molto modesto ma molto accogliente e familiare. Mio padre era un muratore. Costruì un campo da calcio per noi bambini, che si chiamava “Disneylandia”. Abbiamo giocato lì per ore. Ogni giorno. Ho trascorso lì praticamente tutta la mia infanzia”.

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