Si è ripreso il suo posto nel mondo. Altro che Serie A le minors del calcio europeo. Al suo posto, giustamente, avremmo fatto lo stesso

E invece Kvaratskhelia doveva restare qui, ad esultare cercando di non scivolare nel curvone della pista di atletica del Maradona bagnata per spegnere preventivamente i fumogeni. Guardandoci negli occhi, dal basso in alto, baciandosi uno qualunque degli sponsor cuciti su una qualunque delle maglie del Napoli. Tutto il cielo in una stanza, lui e noi. Una bolla che ci consentisse di bearci in trasparenza dell’invidia altrui: è nostro Kvara, gioca per noi. Perché gli bastiamo.
Ora dobbiamo avere il coraggio spericolato di dirgli che ha sbagliato: che a gennaio doveva piantarsi in Serie A, nelle “minors” del calcio europeo. Allenarsi in settimana, guardare la Champions in tv, doccia a Castel Volturno, e poi nel weekend il Lecce, il Venezia. E lì in fondo al tunnel lo scudetto, unica prospettiva eventuale del nostro provincialissimo mirino.
Ora che dalla Champions si riflette su di noi, povere anime ancora alle prese col lutto, di sponda sul calcio mondiale che finalmente ha preso a divorare. Non da Napoli, ma da Parigi. Adesso tocca indossare la più seria delle nostre espressioni compunte – magari evitando di farci sorprendere a ridere di noi stessi – e ribadire: “traditore!”.
Lo spunto successivo non è banale, è doloroso: ma noi, al posto suo, che avremmo fatto? Parlo di quelli di noi che ancora conservano un refolo di sanità mentale e un po’ di ambizione. Andare a vivere a Parigi guadagnando circa 300.000 euro lordi a settimana esclusi bonus, per giocarsi la vittoria della Champions o restare a Napoli a lottare, forse, per lo scudetto? In un contesto, sia chiaro, in cui il professionismo e la carriera valgono più – a 24 anni, non a 37 – di un bel panorama sul Golfo e una pizza fritta ben alveolata.
Poche settimane e la realtà ha raso al suolo ogni ipotesi di rinfaccio: ha conquistato tutti, s’è preso il suo posto nel mondo. La sua dimensione era esattamente questa, solo che non potevamo accettarlo perché comprensibilmente ci ostiniamo a sognare di farne parte pure noi. I sogni sono un ingombro, a volte. E la costruzione dei ricordi può rivelarsi una gabbia. Per lui e per noi.
Al pubblico di oggi non devi dare solo le prestazioni per cui ha pagato, ma pare gli sia dovuta anche la fedeltà che è convinto di meritare, e rassicurazioni continue su quanto ci tieni a lui. È marketing emozionale, ed è un tranello nel quale prima o poi cadiamo tutti. C’è ancora qualcuno, nelle paludi delle chat più livorose, che si ostina a fargli la morale: “Il campionato francese non vale niente”. Si chiama negazione. Sono gli stessi che se Kvara diventa un logo del calcio agganciando un pallone a due metro di altezza, chiedono “Kvara chi?”.
Ad un certo punto forse potremmo dircelo, tra di noi, che Kvaratskhelia ha fatto bene. Anzi: non aveva scelta. Come diceva Paolo Cevoli “i fatti lo cosano”.