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Saronni: «Con Moser non si parla, esiste solo lui. Un giorno racconterò tutto, soprattutto della Nazionale»

L’Intervista al Corsera, in pieno filone dissing-vintage. “Nel 1983 mi commosse annunciandomi l’addio. L’anno dopo vinse il suo primo e unico Giro d’Italia rifilandomi 22 minuti. C’ero cascato”

Saronni: «Con Moser non si parla, esiste solo lui. Un giorno racconterò tutto, soprattutto della Nazionale»
French actor Alain Delon encourages Italian Giuseppe Saronni (R) during the 7th stage of the 74th Tour de France cycling race run between Epinal and Troyes, on July 7, 1987. AFP PHOTO (Photo by AFP)

L’operazione ormai è chiara: lo sport vintage tira sempre, sui giornali. Soprattutto se i campioni del passato li tiriamo – di nuovo – dentro rivalità che avevano un senso un tempo ma adesso rischiano l’effetto macchietta. Il Corriere della Sera ha aperto da un po’ il filone ciclismo. Oggi è la puntata di Giuseppe Saronni, che ovviamente parla della eterna storia con Moser.

“Era guerra e senza esclusione di colpi. Lui più vecchio, già fuoriclasse, io ragazzino venuto dal nulla a rubargli spazio e fama. Lui contadino, io quasi di città, lui idolatrato dai tifosi, io con meno supporter ma fedelissimi. Tutti e due affamati di vittorie, Francesco impulsivo, io più riflessivo ma non meno cattivo nei suoi confronti. Non potevamo non detestarci. Un giorno o l’altro dovrò raccontare davvero tutto della nostra rivalità, specie quello che succedeva in Nazionale. Ma non ora: ci siamo presi un periodo di tregua”.

Saronni dice che “con Francesco non si parla. Parla solo lui, esiste solo lui. Al massimo puoi ascoltarlo”.

“Non recitavamo mai, non ci risparmiavamo mai, vincevamo tanto. Eravamo meno presenti in tv e più sulla strada e senza casco ed occhiali a nasconderci il volto. Il pubblico si esaltava. Quella popolarità me la porto ancora dietro e a volte mi imbarazza. Anni fa a Roma passeggiavo con due corridori della squadra di cui ero manager quando un gruppo di persone mi domandò una foto, chiedendo ai due di scansarsi. Erano Cunego e il povero Scarponi, entrambi vincitori di Giro d’Italia”.

Racconta, su richiesta, una “cosa bella su Moser”: “Penultima tappa del Giro 1983, traguardo a Gorizia. Mancano pochi chilometri, sono in rosa, praticamente ho vinto. Francesco si avvicina da dietro, mi dà una pacca sulla spalla e mi guarda con gli occhi lucidi: “Vai a prenderti la maglia, te la meriti. Io ho chiuso, il futuro è tuo, mi ritiro”. Giuro, rimasi scosso anzi direi commosso: una frase così da lui, mai nella vita. Pensai: ma che bel gesto. A fine stagione, però, invece di ritirarsi Francesco rivelò il progetto del Record dell’Ora in Messico. L’anno successivo vinse il suo primo e unico Giro d’Italia rifilandomi ventidue minuti. Ripensandoci, non era una frase da Moser: ci sono cascato con tutte le scarpe”.

Saronni racconta anche che durante il secondo Giro, quello del 1983, qualcuno provò ad avvelenarlo:
“Ero in rosa dall’ottava tappa, quella di Salerno. Negli ultimi tre giorni notammo tre tipi strani che cenavano nel nostro albergo. La sera dell’arrivo finale ad Udine, uno dei tre si avvicinò: era un maresciallo dei Carabinieri, mi disse che ci seguivano da tre giorni per sventare un tentativo di avvelenamento. Un piccolo industriale lombardo che costruiva ruote per biciclette, sponsor di Roberto Visentini, del tutto inconsapevole. Provò a corrompere i camerieri perché mi mettessero del Guttalax nei piatti, ma loro chiamarono i carabinieri. Arrestato, confessò tutto. Il mio sponsor, Del Tongo, non sporse denuncia”.

Al di là delle parti più pruriginose l’intervista di Marco Bonarrigo è molto bella. Saronni racconta un mondo che non esiste più: “A 16 anni andavo alle corse con papà Romano. Quando mi vedevano, tanti ragazzi risalivano in macchina per cercare altre gare. Il dubbio sulla mia presenza c’era sempre: vincevo a braccia alzate e il regolamento lo vietava nelle giovanili. Così mi beccavo due domeniche di squalifica lasciando spazio libero agli altri se la trattativa di papà con il giudice federale per uno sconto di pena non andava a buon fine. A 13 anni, garzone di fornaio, consegnavo il pane in bici prima di andare a scuola. A 17, apprendista tecnico riparatore di macchine da scrivere alla Olivetti, mi allenavo all’alba: mamma metteva i biscotti a sciogliersi nella borraccia con il latte caldo. Ero già nel giro della Nazionale su pista: diventai adulto prestissimo”.

“Viaggiavamo come trottole. Ricordo una gara a Berlino Est, nel 1974: arrivammo al confine di notte: i cani lupo, i fari dalle torrette, i Vopos con i mitra puntati. Ci tennero ore a fianco di una donna con due bambini piccolissimi che perquisirono facendole spremere anche i tubetti di dentifricio. La sua umiliazione fu un’enorme lezione sul valore della libertà. A Berlino con Marino Bastianello vincemmo un’Americana contro i tedeschi dopo 1.001 giri di 167 metri ciascuno. Una follia”.

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