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Visentini: «a tuo agio con la morte ci devi nascere, so da sempre che avrei lavorato nelle pompe funebri di famiglia»

L’ex ciclista al Corsera: «I miei erano brutti, si fidi. Circolavano praticoni e santoni. Per far vincere Moser e Saronni si inventarono abbuoni da trenta secondi»

Visentini: «a tuo agio con la morte ci devi nascere, so da sempre che avrei lavorato nelle pompe funebri di famiglia»

Visentini: «a tuo agio con la morte ci devi nascere, so da sempre che avrei lavorato nelle pompe funebri di famiglia»

Roberto Visentini, campione del ciclismo italiano degli anni Ottanta, intervistato dal Corriere della Sera. Oggi cura e guida l’azienda di pompe funebri di famiglia.

«Le Onoranze Funebri Visentini stanno per compiere cento anni. Papà prima affiancò e poi rimpiazzò nonno. Da bambino sapevo che sarebbe stato anche il mio lavoro».

Perché?
«Lo sentivo: a tuo agio con la morte ci devi nascere. Sapevo che il ciclismo sarebbe stato provvisorio. Quella della famiglia benestante è una balla: già con i primi stipendi guadagnavo più di papà».

Si parla di ciclismo.

Che anni erano, quelli?
«Anni brutti, si fidi. So poco del ciclismo di adesso ma invidio chi corre: ci sono manager capaci, bravi allenatori, fisioterapisti qualificati. All’epoca circolavano personaggi da paura, praticoni e santoni, massaggiatori che si improvvisavano infermieri, infermieri che giocavano a fare i medici, meccanici che oltre a preparare i panini decidevano le tattiche di gara. Tante corse venivano decise a tavolino. Fidarsi era pericoloso. E io, per carattere, mi fidavo. Ne ho prese di fregature».

Lei ha vestito la maglia rosa per 27 giorni complessivi nelle dodici edizioni del Giro a cui ha partecipato, siamo ai livelli di Coppi, Girardengo e Indurain.
«Arrivai secondo nel 1983 dietro a Saronni. Per far vincere lui e Moser, popolarissimi al contrario di me, l’organizzatore Torriani s’inventò abbuoni mostruosi di 30, 20 e 10 secondi per i primi tre di ogni tappa. Io guadagnavo tempo in salita, Beppe accumulando abbuoni. Senza quel regalo avrei vinto a mani basse».

Si rifece nel 1986.
«Battendo proprio Saronni, Moser e Lemond. Non ce n’era per nessuno».

Visentini e il tradimento di Sappada

Poi il fatidico 1987.
«Dobbiamo tornarci sopra? A metà Giro, dopo la cronometro di San Marino, avevo quasi tre minuti di vantaggio sul mio compagno Stephen Roche. Stavo da dio. Due giorni dopo, nella tappa di Sappada, Roche uscì dal gruppo per inseguire una fuga insignificante. Un tradimento, una bestemmia tattica. Mi abbandonarono i gregari, mi abbandonò l’ammiraglia dove al comando c’era Davide Boifava, team manager senza polso. Rimasi alla deriva in maglia rosa, i corridori delle altre squadre che mi compativano allibiti. Moser mi disse: “Devi spaccare la faccia a tutti”. Persi sette minuti e il Giro».

La sua versione dei fatti?
«Tradimento studiato a tavolino. Volevano un vincitore straniero per interessi di sponsor e Roche era un tipo disposto a tutto».

Nel 1990 lei mollò tutto.
«Di punto in bianco. Ero saturo. Non ho più voluto rivedere nessuno e, a parte un paio di feste celebrative, è da quarant’anni che sto fuori dal ciclismo».

Le maglie rosa, i trofei?
«Regalato tutto. Tranne la Coppa del Giro, quella che vede lì sulla mensola del salotto. (La casa di Visentini è una grande, meravigliosa villa con due piscine a strapiombo sul Garda, ndr)».

«Un sabato d’autunno del 1990 restituii le bici alla squadra, il lunedì ero già al lavoro».

Un passaggio brutale.
«Naturale: sapevo che sarebbe stato il mio dovere, ero preparato anche se non avevo gestito un solo funerale in vita mia».

Di cosa si occupa esattamente?
«Di rendere più accettabile la morte di una persona cara. Perché morire è inevitabile e spesso è anche accettabile. Altre volte non lo è per niente: ragazzi, incidenti stradali, tragedie sul lavoro. Bisogna occuparsi dei corpi, di quelli che voi giornalisti descrivete come “poveri resti”. E di chi è sopravvissuto. Della parte più delicata da quasi quarant’anni mi occupo io».

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