Durissima (e ai limiti dell’assurdo) la relazione finale della commissione di inchiesta del Ministero. La risposta di Autostrade
La commissione di inchiesta del Mit ci va giù duro: nella relazione conclusiva presentata ieri scarica ogni responsabilità relativa al crollo del ponte Morandi su Autostrade.
Autostrade sapeva del degrado ma ha speso poco per gli interventi
Un centinaio di pagine compilate in tre settimane scarse (diciamo due effettive, viste le defezioni che nei giorni si sono succedute all’interno della commissione, e di cui ricorderemo oltre) da cui Autostrade esce letteralmente fatta a pezzi mentre la fedina del Ministero viene fuori immacolata come il culetto di un neonato.
Tra le tante accuse alla società concessionaria, quella di aver sostenuto il 98% dei costi per gli interventi strutturali prima del 1999 (anno della privatizzazione di Autostrade) e di aver speso solo il 2% dopo.
“Sull’intero viadotto Polcevera, dal 1982 a oggi, sono stati compiuti lavori strutturali per totali 24.610.500 euro – si legge nella relazione – l’investimento medio annuo è stato di 1,3 milioni tra 1982 e 1999 e di 23 mila euro circa nel periodo 1999-agosto 2018, per un totale di 470 mila euro in 19 anni”. Ci sono stati altri 423 mila euro spesi in restyling ogni dodici mesi, ma erano “non strutturali, per barriere spartitraffico e passerelle”.
Anche se in presenza “di un accentuato degrado del viadotto e in particolare delle parti orizzontali”, con evidenza addirittura di alcuni cavi rotti, Autostrade “non ha ritenuto di provvedere, come avrebbe dovuto, all’immediato ripristino”.
La commissione va oltre, dichiarando che l’intera procedura di controllo della sicurezza delle sue opere, applicata da Autostrade all’intera rete, è “inadatta a prevenire i crolli”.
Manca, agli atti, l’analisi di sicurezza e valutazione sismica del viadotto
Non solo: pare non sia mai stata fatta, da parte di Autostrade, “una analisi di sicurezza e una valutazione sismica del viadotto”: una simile analisi non è neppure nel progetto di retrofitting del ponte, che invece avrebbe dovuto prevederla.
Automobilisti usati come cavie
È scritto con altre parole, ma il concetto è chiarissimo, anzi, agghiacciante.
Nonostante tutte le criticità note, Autostrade non si è avvalsa “dei poteri limitativi e/o interdittivi regolatori del traffico sul viadotto” e “non ha eseguito conseguentemente tutti gli interventi necessari per evitare il crollo”, scrive la commissione, aggiungendo, anzi, che “sorprende la scelta di eseguire i lavori in costanza di traffico, insomma con l’utenza utilizzata, a sua insaputa, come strumento per il monitoraggio dell’opera”.
Cavie a loro insaputa: questo il senso dell’affermazione. I 43 morti del 14 agosto hanno dimostrato sulla loro pelle ciò che era ampiamente prevedibile, ovvero che quel ponte era in condizioni critiche. Nonostante questo, la circolazione non è stata mai interrotta, in attesa di vedere cosa sarebbe successo.
Al concedente sono stati impediti i compiti di vigilanza
Continua, la commissione, accusando Autostrade di aver “minimizzato” e “celato” elementi indispensabili per comprendere lo stato di usura del viadotto, con l’effetto di limitare “il concedente (cioè il Ministero, di cui la commissione è emanazione, ndr) nei suoi compiti di vigilanza”. In pratica, scrive la commissione: se allo Stato non vengono comunicati i problemi, come può, esso, risolverli?
Dichiarazioni tra il tragico ed il comico alla luce di quanto accaduto fino ad oggi
Non intendiamo ridicolizzare la relazione della commissione, tuttavia dobbiamo ricordare le sue vicissitudini dal 14 agosto ad oggi.
Nominato da Toninelli il giorno stesso del crollo, l’organo di inchiesta doveva avere come prerequisito che ne facessero parte tecnici che non avessero avuto in passato a che fare con il Ponte Morandi, per incompatibilità nella valutazione. Eppure, la commissione non ha fatto che perdere pezzi, man mano che passavano i giorni.
Una commissione nata sotto la stella del conflitto di interessi
Il suo presidente, Roberto Ferrazza – oggi tra gli indagati per il crollo – è stato rimosso dall’incarico perché era stato a capo della commissione tecnica del Provveditorato delle Opere Pubbliche della Liguria che il 1° febbraio scorso aveva approvato il progetto di retrofitting presentato da Autostrade che, lo abbiamo scoperto pochi giorni fa, era in realtà incompleto.
Antonio Brencich, originariamente membro della stessa commissione, anch’egli firmatario del parere positivo del Provveditorato, si dimise alla vigilia dell’allontanamento forzato di Ferrazza e oggi figura tra le persone sentite dalla Procura come informate dei fatti. Brencich, come gli altri, del resto, si è avvalso della facoltà di non rispondere.
Della commissione faceva parte anche Bruno Santoro, dirigente tecnico della Direzione generale per la vigilanza sulle concessioni autostradali, dimessosi qualche settimana fa per aver svolto consulenze per Autostrade tra il 2009 ed il 2013, percependo 70mila euro, anche lui tra gli indagati per il crollo.
E ancora, tra i membri della commissione, fino a qualche giorno fa, c’era anche Michele Franzese, appartenente alla stessa Direzione di vigilanza di cui faceva parte Santoro, segnalato alla magistratura perché sulla sua scrivania non potevano non essere transitati documenti che raccontavano la criticità del ponte: anche lui dimessosi per lo stesso conflitto di interesse degli altri.
Gli obblighi di vigilanza del Ministero rendono poco credibile lo scaricabarile
Anche la meraviglia mostrata dalla commissione in merito al fatto che Autostrade non abbia bloccato il traffico e che anzi abbia usato le persone come cavie fa sorridere.
In primo luogo, lo stesso Ferrazza, in qualità di capo del Provveditorato, avrebbe potuto interrompere la circolazione, sentiti gli organi locali e considerati i rischi della struttura.
Inoltre, lo stesso Ministero, in qualità di concedente, aveva tutto il diritto e il dovere di vigilare in maniera puntuale sui lavori in corso sul ponte Morandi.
Secondo l’articolo 28 della Convenzione unica voluta nel 2007 dall’allora ministro delle infrastrutture Antonio Di Pietro e sottoscritta dall’Anas e da Autostrade, lo Stato avrebbe potuto inviare i suoi ispettori a rendersi conto di come stavano procedendo le cose e avrebbe potuto chiedere un’indagine sulle condizioni del viadotto, il tutto senza l’esborso di un euro poiché, per legge, i costi delle ispezioni e dei controlli sarebbero stati a carico del concessionario, cioè di Autostrade.
La commissione giudica non approfondita l’analisi del Provveditorato
Fa sinceramente sorridere (se non piangere) anche il giudizio dato dalla commissione di inchiesta del Mit nei confronti dell’approvazione del progetto di retrofitting da parte del Provveditorato: “Il progetto – si legge nella relazione finale – è stato esaminato dopo un mese dalla trasmissione, con procedura irrituale e inopportuna, un esame rapido e apparentemente non approfondito”. Ne sarebbe nato, scrive la commissione, “un parere fuorviato e fuorviante”.
Peccato che a dare questo giudizio tranchant sull’operato del Provveditorato sia una commissione che si è persa pezzi per strada in soltanto un mese di lavoro: potremmo avanzare la stessa perplessità su una relazione che viene fuori a distanza di nemmeno due settimane dalle dimissioni dell’ultimo suo membro che dello stesso Provveditorato di cui oggi si giudica l’operato faceva parte in qualità di tecnico.
Le possibili cause del crollo
Veniamo alle cause del crollo ipotizzate dalla commissione del Mit. Incredibilmente la relazione contraddice i primi esiti della Procura, che attribuisce il crollo ad un possibile cedimento degli stralli.
La commissione, che non ha avuto a disposizione i video agli atti della procura ma si è basata su video e immagini reperibili online (nella relazione è scritto che la documentazione “ripetutamente richiesta” alla procura non è mai arrivata, ndr), fa tre ipotesi.
Le prime due imputerebbero l’innesco del collasso al cedimento improvviso dell’impalcato, cioè della strada, a sud-est e a sud-ovest del pilone 9: ciò avrebbe fatto sì che gli stralli non reggessero più; la terza, ritenuta meno probabile, al cedimento dello strallo a sud-ovest.
Ci sembra francamente pazzesco. La commissione bolla come poco probabile il cedimento degli stralli nonostante siano emerse decine di documenti che ne provavano il degrado, tanto da convincere la Procura a mettere sotto accusa proprio gli stralli.
Lo fa, per di più, sulla base di documenti non ufficiali, che chiunque può reperire in rete. Forse perché del degrado degli stralli, a leggere le notizie susseguitesi nelle ultime settimane, non era certo consapevole solo Autostrade, ma anche gli uffici ministeriali che oggi risultano incredibilmente assolti da ogni responsabilità dalla relazione della commissione del Mit.
La risposta di Autostrade
Non si lascia attendere, naturalmente, la risposta di Autostrade. Sul sito web della società, ieri, è apparsa la solita nota esplicativa.
La relazione – recita la nota stampa – “non tiene in alcun conto gli elementi di chiarimento forniti dai tecnici della Concessionaria nel corso delle Audizioni rese su richiesta della Commissione”. Inoltre, i tecnici della società “non hanno avuto finora la possibilità di accedere ai luoghi sottoposti a sequestro da parte della Procura di Genova e quindi di svolgere le analisi e le indagini necessarie per ipotizzare dinamiche e cause del crollo, che peraltro non vengono chiarite neanche dalla Commissione (i cui membri hanno avuto, invece, libero accesso ai luoghi)”.
Dunque, le responsabilità ipotizzate dalla commissione a carico di Autostrade sono da ritenersi “mere ipotesi ancora integralmente da verificare e da dimostrare”.
Autostrade interviene anche sull’assenza della valutazione sulla sicurezza di cui si è detto sopra: il documento, si legge nella nota, “è prescritto soltanto per infrastrutture situate nelle zone sismiche 1 e 2, mentre non è prescritto nelle zone 3 e 4 al cui interno è collocato il Ponte Morandi”.
Sugli interventi di manutenzione giudicati non adeguati dalla commissione Mit, Autostrade dichiara “di aver speso circa 9 milioni di euro negli ultimi 3 anni e mezzo per aumentare la sicurezza del ponte e che nel periodo 2015-2018 sono stati realizzati sul ponte ben 926 giorni-cantiere, pari ad una media settimanale di 5 giorni-cantiere su 7”.
Circa la contestata interruzione di interventi strutturali sul viadotto dopo il 1994, “a seguito della realizzazione di interventi molto importanti negli anni precedenti”, la società ricorda “che gli interventi effettuati prima del 1994 erano essenzialmente correttivi di errori di progettazione e di costruzione del Ponte Morandi, superati appunto con l’intervento del 1994. Da allora la situazione è stata costantemente monitorata dalle strutture tecniche ed ha portato nel 2015 alla decisione di realizzare l’intervento di retrofitting del ponte”.
Sull’utilizzo di persone come cavie, ovvero sulla mancata interruzione della circolazione, il concessionario scrive che la scelta di eseguire lavori in costanza di traffico non sono mai state contestate dal Ministero: “La società ricorda che le modalità operative previste dal progetto approvato dal Ministero nel 2018 erano analoghe a quelle seguite negli anni 1991-1993 per interventi analoghi e mai contestate, e che queste comunque prevedevano varie fasi di chiusura del ponte al traffico. Tutto questo in assenza di elementi di urgenza e di rischio”. E aggiunge, ancora una volta, che la decisione di chiudere il traffico “non è stata assunta dal Direttore di Tronco di Genova (Stefano Marigliani, ndr), non sussistendo allo stato le condizioni di rischio che la giustificassero sulla base delle analisi e dei monitoraggi eseguiti”.
L’incidente probatorio
È iniziato ieri l’incidente probatorio su ciò che resta del Ponte ed è iniziato in salita, poiché – racconta Il Fatto Quotidiano – la difesa di un indagato ha contestato il fatto che un perito scelto dal gip lavori per un soggetto che è stato consulente di Autostrade. Ci si riferisce a Giampaolo Rosati, professore del Politecnico di Milano che compì per Autostrade uno studio sul Morandi. Il gip, tuttavia, ha respinto le eccezioni.
Il controverso ruolo del Mit
Singolare la posizione del Mit nell’incidente probatorio. Il Ministero ha nove dipendenti indagati, tra cui uno, Roberto Ferrazza, che è assistito dall’Avvocatura dello Stato.
Il ministro Toninelli assicura che più avanti si costituirà parte civile: quando “ne avremo facoltà”, dice, ossia in sede di udienza preliminare, “dopo che la Procura avrà esercitato l’azione penale”.
Le prossime tappe dell’incidente probatorio
I tre periti – Rosati, Massimo Losa e Bernhard Elsener – compiranno il primo sopralluogo il 2 ottobre, poi avranno due mesi di tempo per ulteriori accertamenti e per presentare le loro conclusioni, scrive Il Fatto.
Fino ad allora non sarà possibile demolire il ponte. Il procuratore Francesco Cozzi spiega anzi che “nel mandato ai periti è scritto che devono essere concordate modalità di demolizione idonee a salvaguardare le prove”.
Il decreto per Genova
Evitiamo di soffermarci, per decoro e perché in questa rassegna abbiamo finora privilegiato gli aspetti legati più strettamente alle indagini, sulla querelle che riguarda il decreto per Genova, questione che ormai ha assunto accenti ridicoli, oltre che demoralizzanti.
Fincantieri risolve il problema dell’attestato mancante
Giuseppe Bono, ad di Fincantieri, ha incontrato ieri il premier Giuseppe Conte e gli ha fornito rassicurazioni sulla possibilità di Fincantieri di partecipare alla ricostruzione del ponte. L’ad avrebbe portato con sé la certificazione Soa ottenuta da Fincantieri, che era stata dichiarata mancante.
Bono avrebbe fatto presente al governo – scrive Il Secolo XIX – di avere tutte le carte in regola per partecipare a gare europee oppure ottenere un affidamento diretto dell’ordine, sia da sola che all’interno di un’Ati.
Se avesse il via libera, il gruppo affiderebbe la commessa alla sua controllata, Fincantieri Infrastructure, specializzata nella progettazione, realizzazione e montaggio di strutture in acciaio come il nuovo viadotto.