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“La casa di Jack”: Lars Von Trier vale sempre la pena

“C’è solo l’inferno per chi lo ha cercato tutta la vita”. Grande film, forse solo un po’ didascalico. L’ultima di Bruno Ganz. Una spumeggiante Uma Thurman

“La casa di Jack”: Lars Von Trier vale sempre la pena

Il film comincia con un dialogo in ombra

In un weekend cinematografico stretto tra Giallini, Mastrandrea, Bentivoglio ed Alessandro Gassman siamo andati a vedere “La casa di Jack” del regista danese Lars Von Trier e non per le polemiche che lo hanno accompagnato alla sua presentazione a Cannes 2018 e per le versioni censurate o integrali dello stesso, ma per curiosità.

La storia racconta di un ingegnere che voleva fare l’architetto e che ha un problema ossessivo compulsivo che nato dalla sua precisione nella vita e negli studi lo ha portato a divenire un serial killer soprattutto, ma non solo, di donne che camminano da sole per le strade.

Il film – vietato ai minori di 18 anni – che inizia con un dialogo in ombra tra Jack (Matt Dillon) ed un misterioso personaggio che si svelerà nel corso dell’opera – ultima interpretazione dello straordinario Bruno Ganz mancato pochi giorni or sono – racconta la vita dello psicopatico ingegnere – che vive nello Stato di New York, presumibilmente tra la fine degli anni ’70 ed i primi anni ’80 – che mentre costruisce una sua casa perfetta sulla riva di un lago, uccide donne ed altre persone congelandole in una cella frigorifera e poi fotografando le vittime, assumendo di avere creato una sua opera d’arte mediante l’omicidio.

“C’è solo l’inferno per chi lo ha cercato tutta la vita”

Jack ha passato un’infanzia a farsi inseguire dagli altri meravigliandosi di compiere cose odiose che non gli venivano sanzionate: ora è uno psicopatico che crede di essere superiore verbalmente, narcisista, isolato, e con un forte odio verso il genere umano reo di non capire la sua grandezza. In cinque incidenti Jack si confessa “in maniera strana ed improvvisa” al suo terapeuta-accompagnatore e descrive la genesi e la cronologia dei suoi omicidi. (Una delle donne nel primo episodio è interpretata da una spumeggiante Uma Thurman). Lo scontro con il suo interlocutore sembra una cognizione processuale dove Jack sostiene la tesi che la vita è crudele e solo dalle sue azioni delittuose può scaturire creazione e quindi arte. Anche se poi la sua casa non viene mai costruita perché, pur ritenendo che “è il materiale usato che governa la costruzione”, non è mai soddisfatto.

Odia le lettere Jack, mentre il suo Caronte gli ricorda che “forse ha sbagliato a non fidarsi dell’alfabeto; che è quello che trasmette i sentimenti e tramanda la religione”. Non c’è spazio per l’amore nella vita di Jack che invece la occupa tagliuzzando seni femminili ed uccidendo dal piccolo alla madre un’intera famiglia. Tutte atrocità gratuite non perseguite? La sua fortuna sta per finire e si scopre che il suo Caronte è un Virgilio postmoderno che l’accompagna agli inferi. Il suo Epitaffio? “C’è solo l’inferno per chi lo ha cercato tutta la vita”. Grande film, forse solo un po’ didascalico per il palato di noi europei-latini.

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