L’intervista a Gianni Minà, che io allora mi rifiutai di capire. Ripeteva: «Sono stanco». Il calcio ci permette di infilarci nell’enigma dell’esistenza
La Settimana Santa
C’è un momento, ogni anno, in cui ha inizio la Settimana Santa per gran parte degli abitanti del pianeta. Lo chiamano un tempo di preparazione, di transizione e di definitivo passaggio. Cambiano le latitudini e con esse le antiche sfumature che caratterizzano le religioni, mutano i modi di relazionarsi a questi mondi degli uomini e delle donne più o meno fedeli, ma non si trasforma l’idea finale, la speranza fissa nelle menti delle persone: verrà qualcuno e ci salverà dalla morte, rimuoverà il dolore, ci condurrà alla vittoria finale. Qualunque sia la dottrina seguita, ogni religione è legata alla certezza di trionfare nell’ultimo giorno. Ogni liturgia è il memoriale di una insperata eppure certa vittoria al novantesimo.
È di questi giorni che solitamente ricordo quella che fu la mia fede, poi scemata e scomparsa per strada. Ho smesso di credere da molti anni e da altrettanti, in tempo di Pasqua, riascolto questa intervista di Gianni Minà a Diego Armando Maradona che riecheggia quasi un interrogatorio nella Sinagoga. Ricordo bene quando la seguii per la prima volta, nel 1990. Ero un acerbo quindicenne e opposi ogni mio possibile rifiuto alle parole di colui che era il mio dio in terra, il verbo incarnato del Prologo di San Giovanni, la luce che risplendeva nelle tenebre e che le tenebre non riuscirono a vincere. Mi vedo fissare il tubo catodico del televisore dell’epoca, a casa dei miei genitori, e quasi gridare alla bestemmia. Le parole che ascoltavo erano non solo oltraggiose ma addirittura blasfeme, quali quelle che in molti dovettero sopportare in Palestina da chi rimetteva i peccati definendosi figlio di Dio. Maradona era dinanzi a me l’uomo che si ribellava al destino, il corpo che decideva di sottrarsi alla forza dello spirito in un delirio cui mi opponevo con ogni mia goccia di sangue – “Sono stanco” ripeteva. L’essere umano sullo schermo, che aveva popolato ogni mio sogno preadolescenziale, il culmine e la forza di ogni mio orgoglio, voleva sottrarsi alla storia, alla lotta –aveva deciso, con un atto violento di sommossa, di non fare quanto doveva. Aveva deciso di smettere di rendermi felice.
Il diritto alla mia felicità che dichiaravo assoluto
Quando, in questi giorni, riascolto con attenzione questa splendida intervista, mentre nelle chiese di mezzo mondo si accendono le candele della certezza della vita dopo la morte, capisco il mio, di passaggio. Comprendo anzitutto che, all’epoca, da buon ragazzino, non capii nulla. Mi rifiutavo di ascoltare la fine dei miei sogni sentenziata dalla assurda necessità anche solo di immaginare che Prosinečki – Prosinečki? – potesse sostituire il sinistro più luminoso del pianeta. Non colsi il privilegio di avere di fronte un dio, nel più profondo senso latino e greco assieme che, dopo aver saltato cinque inglesi e aver segnato un gol con la mano, stava parlando proprio a me, quindicenne, per spiegarmi che “nulla dura in eterno”. Neppure lui. Neppure Diego Armando Maradona. Neppure il diritto alla mia felicità che dichiaravo assoluto. Rifiutai di capire che neppure io ero innocente e, in cuor mio, pensai che se quell’ammasso di carne e nervi argentini doveva morirci sotto il peso della pressione, che così fosse. Mi ritenevo un puro ed avevo invece appena iniziato ad essere un ordinario carnefice che mandava in croce il Pibe stanco, dopo averlo salutato entrare in Gerusalemme con i ramoscelli in bella vista.
Il calcio ci permette di infilarci nell’enigma dell’esistenza
Le stagioni dell’esistenza sono molte e complesse e non furono certo solo questi quindici minuti ad aprire i cancelli del mio piccolo passaggio. Ma se ancora oggi, a distanza di quasi trent’anni, rimango rapito e travolto da un torrente di sentimenti nel seguire queste parole, qualcosa vorrà pur dire. Oggi, che la fede religiosa è il ricordo di un racconto tramontato, capisco quale strumento fenomenale sia il calcio per crescere uomini e donne che non rinuncino ad avere un approccio problematico alla vita pur senza lasciarsi andare alla irragionevolezza della speranza che il tempo, la vecchiaia, il dolore, la malattia ci inducono a creare. Il calcio ci permette di infilarci nell’enigma dell’esistenza, di cercare la sofferenza, di vivere qualche sparuto attimo di gioia, di credere in un dio che lascia saltellare la palla sul suo piede sinistro, sapendo che tutto ciò non ci salverà. Il calcio non garantisce alcuna vittoria al novantesimo. La meraviglia del paradosso è che, sebbene quel minuto sia di solito amico delle nostre più buie disperazioni, noi non smettiamo mai di cercarlo, obbligati a vivere ogni attimo come l’ultimo. Senza alcun senso.
Non fu dunque un prete, o un Padre della Chiesa, a spiegarmi l’arcano. Furono queste parole, risuonate in me molti anni dopo, asciutte e vinte a valle della gioia monumentale e gratuita donatemi da Diego Armando Maradona, a mostrarmi che la vita era più difficile di quanto mi aspettassi. Che a talune domande neppure lui avrebbe dato risposta. Che i suoi vizi erano necessari e lo sarebbero stati anche i miei. Che non si allenava eppure i suoi compagni lo adoravano perché non tutto segue una stretta logica. Quindici minuti che, per me, oggi, valgono più della consueta Via Crucis del Colosseo.
Il calcio ha potuto molto, nella mia vita. Non ha mai insegnato, ha sempre e solo mostrato, apoteosi e ferite. Non le ha mai separate, si è divertito costantemente ad intrecciarle su un rettangolo di gioco. In una cosa oggi credo di certo: di non essere l’unico a poter dire di essere diventato un po’ più uomo grazie alle parole di un nano di Villa Fiorito – non è Betlemme e la sua terra non è santa. Ma queste sono minuzie che servono solo alla burocrazia dei porporati.