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Sono un bambino, un padre, un pallone, uno scrittore. Sono i mille volti della maglia di Callejon

Sono il bambino di otto anni che ha appena ricevuto la maglia di Callejón. Mi brillano gli occhi

Sono un bambino, un padre, un pallone, uno scrittore. Sono i mille volti della maglia di Callejon

Sono un bambino

Sono quel bambino.

Sono il bambino di otto anni che ha appena ricevuto la maglia di Callejón. Mi brillano gli occhi, non avrei mai pensato che quella maglia, la maglia delle 300 presenze raggiunte con il Napoli atterrasse proprio tra le mie braccia, perché è stato un atterraggio vero e proprio. Calle l’ha lanciata a pallonetto, la 7 è volata in alto, ha scavalcato le due file di persone davanti a me, le loro braccia tese verso l’alto, poi è planata come se la mia posizione fosse l’incrocio dei pali, come se le mie mani fossero quelle del portiere.  Mi sono immaginato di indossare due guantoni gialli da portiere e l’ho bloccata. Trecento partite, gol, assist, sudore e divertimento, adesso tra le mie mani.

Sono un bambino.

Sono quel bambino.

Sono il bambino che dice a suo padre che non vuole lavarla quella maglia, che l’istante dopo gli dice che vuole appenderla in camera, che due minuti dopo gli dice che vuole dormirci, che cinque minuti dopo gli dice che vuole giocarci, che qualche minuto dopo gli dice che magari alla prossima partita ce la facciamo firmare.

Sono un bambino.

Sono quel bambino.

Sono il bambino portiere, il bambino guanto giallo, il bambino maglia porta via, il bambino forza Napoli, il bambino numero 7, il bambino Calle, il bambino felice. Proprio quel bambino.

Sono un padre

Sono quel padre.

Sono suo padre. Il padre del bambino felice. Ho visto la maglia volare, ho alzato la testa e ho visto un numero 7 volteggiare, come se fosse una serpentina, un’infilata di dribbling al di sopra delle teste. Davanti e dietro di me ho visto padri di altri figli sperare che la maglia cadesse il più vicino possibile a loro, affinché potessero darla a uno dei loro figli seduti lì accanto, o portarla a casa a un altro figlio più piccolo.

Ho visto un padre che non era un padre, non ancora. Ho visto i suoi immaginare il futuro, una figlia a venire a cui regalare un giorno, non troppo distante, la maglia di Callejón. Io sono il padre, però, di quel figlio che ha indossato i guantoni gialli, che la maglia l’ha presa, che l’ha afferrata, tenuta, salvata. Ha tenuto quella maglia come si tiene la reliquia di un santo, come si accarezza un cucciolo di cane. Ha tenuto quella maglia facendo la faccia che fa quando dice a sua madre: “Ti voglio bene”. Io sono il padre che ha assistito al miracolo, al privilegio, alla fortuna. Io sono il padre che è stato bambino, il padre tifoso felice per suo figlio. Il padre invidioso che figlio vorrebbe tornare, per fare gli occhi luminosi, saper inventare guantoni gialli, saper afferrare la maglia lanciata, la maglia volante, la maglia festeggiata. Io sono il padre che domanda al figlio di insegnargli a gioire.

Sono un pallone

Sono quel pallone.

Sono il pallone per 300 partite giocato, 300000 volte rimbalzato, 3000000 di volte toccato, tirato, sfiorato. Sono il pallone di sempre, quello di Calle. Il pallone che giustifica ogni rimbalzo, che richiede il controllo, che si presta all’effetto, che asseconda il passaggio, che si sottomette al tiro, che si stacca da terra, che si lascia strappare. Un pallone da fango, da tackle, da telecronaca sbagliata, un pallone pronunciato male.

Sono un pallone.

Sono quel pallone.

Sono il pallone che al fischio finale ha visto la maglia volare. L’ha vista volare sulle teste, mi somigliava, aveva il piglio che ho io quando scavalco le barriere, o quello di un fuggiasco che riesce a passare una frontiera. Era una maglia leggere, la maglia volante, la maglia della festa, la maglia azzurra tra le mani del bambino guanto giallo.

Sono un campo da gioco

Sono quel campo da gioco.

Sono il campo che ha visto due pali tremare, una fascia da capitano sul braccio di un uomo, ho visto il fischio finale, ho visto le strette di mano, ho visto gli scambi di maglia. Sono il campo da gioco, che dal suo punto di vista, il più basso possibile, ha visto una maglia salire lassù. La maglia lenzuolo, la maglia vento, la maglia regalo, la maglia nel punto preciso, la maglia che accorcia la distanza tra il sogno e il bambino. Sono il campo da gioco che ha visto un calciatore andare via senza maglia, che ha visto un bambino guantoni gialli andare via con una maglia. Ho visto il sipario, ho visto quello che l’erba vuole sempre vedere, ho visto il salto e il vento che fa il suo dovere.

Sono uno scrittore

Sono quello scrittore.

Sono lo scrittore che immagina e che poi vede. Sono lo scrittore che vede Callejón giocare, lo vede per 300 partite; che vede la sua maglia volare sopra le teste, come un pallonetto, come un colpo sotto, come una punizione perfetta sopra la barriera; che vede teste ignorate, teste di adulti, teste senza più sogni, teste senza speranza, teste senza futuro; che vede quelle teste scavalcate; che vede quello che la maglia sa, che la maglia fa; che vede il bambino che vince perché immagina; che vede il guantone giallo comparire, che vede due piccole mani parare; che vede la maglia atterrare così come la vede il bambino, così come dal campo, dall’erba, la vede il pallone, la vede Calle.

Sono lo scrittore che scrive ciò che è verosimile. Il verosimile ha i guantoni gialli e vince sempre sul vero.

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