Fino alle 22 e 10 di ieri sera, per la splendida Roma di Garcia si cercavano termini di paragone fuori dalla serie A di oggi e del passato. Le dieci vittorie di fila lo imponevano. La città si interrogava sulla data migliore per andare al Circo Massimo a festeggiare, sperando che i lavori di restauro fossero finiti in tempo, al massimo si domandava chi fosse la spogliarellista più adatta dopo la Ferilli. Alle 22 e 30, venti minuti dopo, al primo pareggio (in trasferta), da primi in classifica e con tre punti di vantaggio, Roma già parlava solo del complotto. Lettera maiuscola. Il Complotto. No, non c’entra Jfk. Il Complotto: Maicon, Pjanic, i rigori, insomma ci siamo capiti. Un complotto evidentemente raffinatissimo, se per 10 settimane gli invisibili burattinai hanno tollerato questa squadra in testa alla classifica, diciamo la verità, sbagliando pure in suo favore due-tre cosine chiave in due-tre partite chiave.
A Roma invece piace parlare di sé e della sua splendida e meritata cavalcata come di una anomalia. Una singolarità malvista. Roma. La capitale. Il luogo dei Palazzi. La Banca delle Banche alle sue spalle. Eppure, alla Roma romanista piace così. Sentirsi vittima. Un poco come noi. Senza offesa per nessuno. Per noi e per loro, freudianamente, c’è un trauma alla base. Il nostro adesso non importa. Il loro sta in quella favola che girava sugli scudetti vinti. La favola secondo cui il primo, 1942, l’avesse voluto Mussolini. Che il secondo, 1983, l’avesse deciso Andreotti. Se davvero Mussolini e Andreotti disposero lo scudetto, non si capisce perché ne avessero voluto soltanto uno. Ma la storiella girava e la Roma romanista a darsi i pizzichi sulla pancia. Hanno atteso e desiderato il terzo quasi solo per poter dire al mondo: mondo, hai visto?, vinciamo pure senza Benito e il Divo Giulio. Invece la storia cosa ti combina. Piazza il terzo scudetto nel 2001. Così c’è sempre qualcuno che arriva fresco fresco e lo attribuisce al Giubileo. Il Potere dei Poteri. E dai, lassù qualcuno vi ama. Il trauma è questo per la Roma romanista. Sentirsi poco amati è una cura, una spiegazione per i passi falsi, la scorciatoia per accettare i fallimenti. La conosciamo bene pure noi, quella strada l’abbiamo consumata con le nostre scarpe. Roma non può ammettere tutto il potere di cui dispone. Riconoscendolo, dovrebbe dare alle sconfitte il nome che hanno.
Avercelo noi, il potere di Roma. E parlo di potere trasparente. Quello che si deduce dalle definizioni dei dizionari. Definizione numero uno: la facoltà/possibilità di compiere qualcosa. Definizione numero due: dominio, possesso. Definizione numero tre: diritto a determinare effetti (diritto, eh, nulla di lordo). Definizione numero quattro: influenza. Non è questione di stabilire SE il potere incide sulle partite di calcio. Il punto è COME. Il potere non fa vincere i campionati alle squadre che non ne hanno la forza, ma sa accompagnare fino in fondo quelle che si sono attrezzate. Il potere non si nasconde nelle stanze. Non più. Fa tutto alla luce del sole. Lo fa sui suoi giornali, con le sue tv, lo fa sui social, creando un determinato clima con la forza di un hashtag e di 140 caratteri. Tutto lecito, lo diceva la Fallaci: “Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione cha abbaia. Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza”. Al potere della Casa Madre torinese ci siamo abituati come a una causa naturale. Ci accompagniamo a esso. Ci viviamo dentro. E’ come la legge di gravità, sappiamo che esiste, pazienza, ci siamo adattati. Con le squadre di Milano che si affannano per rinascere, pensavamo di aver tagliato fuori tutto l’apparato mediatico che viaggia su quelle onde medie di frequenza, dai grandi giornali a Mediaset. Invece al potere di Roma non pensiamo mai, perché se ne sta per anni in sonno, poi spunta fuori quando deve. Adesso. Agisce perfino per accreditare la tesi che Roma sia un’anomalia scomoda. Avere la Roma come avversaria per l’altissima classifica, significa avere per avversari una discreta massa di figure professionali giunte in ruoli chiave della comunicazione. Per anni, silenti, si appassionano al loro derby. Ma quando arriva l’anno giusto, tirano dal cassetto il nastro e il garbo. Se trent’anni fa la Roma romanista poteva disporre solo dell’artigianato del telebeam e del tifo dei capistruttura Rai per reclamare il gol di Turone, adesso può contare pure sulla faziosità di seta di molti telecronisti Sky cresciuti nelle tv romane, oppure su opinionisti di antica militanza a Trigoria, quelli che ti convincono che sì, un contatto c’è stato, il fallo si poteva dare, rivediamolo ancora, qui c’è un’altra inquadratura, si vede la mano sulla spalla, cade per un dito sul fianco, un soffio sul collo. Non è disonestà, capiamoci. E’ la lezione di Machiavelli. E’ il potere, il diritto (il diritto) a determinare effetti. Quando il Napoli aveva Maradona, Ferlaino chiese aiuto all’allora potentissimo Biagio Agnes in Rai per contrastare il Milan-Mediaset. E’ la capacità di influenzare.
Mi chiedo allora dove sia il Napoli oggi. Quale sia il suo potere, qual è il potere di Napoli città, la sua capacità di accompagnare la squadra. Guardate gli juventini vip sui social. Se c’è una svista arbitrale non twittano: il rigore non c’era. Scrivono: dai, adesso, ricominciate con Iuliano e Ronaldo. Influenzano un clima. Non più di nascosto. Non solo di nascosto. E se Roma adesso urla per i complotti da Palazzo, io ho paura dei non-complotti da Marciapiede. Sotto gli occhi di tutti. E’ passeggiando sotto braccio che si ordiscono trame.
Il Ciuccio