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L’Idea di Benitez è rivoluzionaria. Mazzarri resterà un numero due materialista a vita

E adesso Mazzarri, che ritorna con la casacca nerazzurra. Premesso che non sono un rafaelita dogmatico o talebano, per citare Trapani, il confronto tra il presente e il passato, cui non ci possiamo sottrarre, diciamolo francamente, mi ricorda la differenza tra Berlusconi e Alfano, Renzi e Bersani, Cristoforo Colombo e Schettino per usare un’ultima, estrema immagine. Ma randellare Mazzarri con l’accusa di schettinismo sarebbe invettiva antistorica e ingenerosa. Piuttosto il filo della querelle, perché di questo si tratta viste le critiche e gli attacchi dei pre-rafaeliti per gli otto punti dalla vetta bianconera (su Tuttosport ho letto persino una corrispondenza napoletana dedicata ai tifosi che rimpiangono l’amato Walter), il filo della querelle, dicevo, è da srotolare in una direzione che abbiamo già conosciuto nella nostra città. Rivoluzione. Iniziamo dal maggio scorso, quando l’addio mazzarriano fiorì come un crisantemo sul manto sanpaolino. Sul Corriere del Mezzogiorno maturò un appello intellettuale per farlo restare. “Abbiamo bisogno dell’illuminismo di Mazzarri”. I lumi di Walter contro l’estemporaneità evanescente e dannosa dell’uomo solo al comando, contro lo spettro eterno di Masanellio che incombe sulla storia napoletana. La programmazione, l’organizzazione, il collettivo, questo il vangelo dell’uomo arrivato dalla provincia di Livorno. A dire il vero, qualche anno prima c’era stato un significativo precedente propedeutico alla supplica finale del maggio 2013. La fumantina coppia formata da De Laurentiis e Mazzarri era stata accostata al riformismo calato dall’alto di Ferdinando IV (ovviamente Aurelio presidente-sovrano) e del suo ministro più importante, Tanucci (il tostissimo Walter dei titolarissimi). Ma il riformismo ha sempre un orizzonte limitato, pragmatico. Ed è quasi sempre destinato a soccombere di fronte alla rivoluzione. E chi è stato Tanucci non può improvvisarsi Lenin o Guevara o Robespierre o un repubblicano del ‘99, storicamente parlando. De Laurentiis tranciò il crisantemo dell’addio traditore oltrepassando le colonne d’Ercole e portando a Castel Volturno Rafael Benitez inteso come Rafa. Una rivoluzione, appunto, senza bisogno di alcuna presentazione. Il fatale passo successivo. Perché Benitez ha un’Idea, con la maiuscola. Non solo l’organizzazione e la programmazione. E qui entro in un campo più consono al mio amico filosofo Giancristiano Desiderio, che al calcio e alle idee ha dedicato volumi e volumi, da cui rubo questo passo: “Davvero le idee sono, come diceva Antonio Labriola, dei caciocavalli appesi o dei palloni al vento? Davvero sono separate dal mondo di quaggiù?”. Labriola fu marxista e materialista. E senza saperlo, a Napoli, Mazzarri ci ha regalato un originale materialismo superstizioso (come dimenticare la sua uscita dagli spogliatoi accarezzando sacre immagini) sfociato nella dittatura del proletariato di Cavani (sempre sia ringraziato, anche perché andando via ci ha fatto scoprire un campionato di cui non conoscevamo l’esistenza). Oggi invece l’Idea rafaelita distribuisce il bottino del nostro fu Cannibale demoraticamente tra Higuain, Pandev, Callejon e Hamsik. Il realismo di Mazzarri era poi diffidente con la qualità, simboleggiato da quel clamoroso retropassaggio a campanile di Inler nella parte finale di Lazio-Napoli. La Rafarivoluzione, tutto attaccato, paga infatti le scorie del passato materialista ed è per questo che ostinatamente, ma non senza dubbi, dobbiamo credere nel motto “Sin prisa pero sin pausa”. Questo è “solo” il primo anno e Benitez, almeno per me, ha già raggiunto un grosso traguardo psicocalcistico. Non soffre l’ansia da prestazione. La differenza con il predecessore sta in un verso di Gaber: “Quando sarò capace d’amare farò l’amore come mi viene senza la smania di dimostrare”. Parafrasando: “Quando sarò capace di vincere allenerò senza la smania di dire chi sono e che cosa ho fatto”. Adesso ogni giornata di campionato non è una finalissima. La rivoluzione non è mai uguale a se stessa e deve fare sempre i conti con la reazione in agguato, pronta a prendere i forconi e a gridare in modo provinciale: “Ma questo chi si crede di essere?”. La napoletanità più deteriore, quella di considerarci l’ombelico del mondo. Come se Cannavaro fosse Krol o Baresi. Lo ammetto, quando Benitez si presenta in conferenza stampa con quel faccione giocondo e cita Esopo senza scomporsi penso al marziano di Flaiano e godo. Un genio, da criticare quando si vuole ma non da abbattere. Una settimana fa, alla web-tv del Fatto, abbiamo intervistato Luigi de Magistris. Lui si è difeso da critiche e rilievi e attacchi rivendicando un lungo elenco di cose fatte. Non entro nel merito perché non è questa la sede. Mi limito alla domanda che gli ho fatto e alla sua risposta. “Sindaco è come se lei chiedesse ai cittadini di portare pazienza e di aspettare il bilancio finale. Per fare un esempio calcistico, vengono in mente le dure critiche a Benitez in questi giorni, prima accolto con entusiasmo e adesso considerato quasi un incapace”. Il sindaco ha risposto: “I napoletani non hanno pazienza e alzano sempre l’asticella. Tu li liberi dai rifiuti e loro guardano la carta per terra”. Ripeto, non entro nel merito politico, ma le sue parole, in senso oggettivo, grammaticale, mi riportano a quanto ossessivamente scrive Max quotidianamente in difesa di Rafa. Sintesi: “Fischiamo e critichiamo ma siamo terzi a 32 punti e siamo andati fuori dalla Champions per un gol in meno nella differenza reti”. All’Idea corrispondono i fatti e i fatti questo sono. Benitez ha il quid rivoluzionario, l’altro secondo me resterà un numero due materialista a vita. Domenica sera io applaudirò Mazzarri, ma quando poi vedrò i due davanti alle panchine, con il loro stile e le loro facce, penserò: “Chissà mai se faranno un film anche sulla rimonta della Reggina partita da meno quindici”. A interpretare Benitez, nel film sulla notte leggendaria di Istanbul, fu Neil Fitzmaurice. Fabrizio d’Esposito

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