Da un pezzo è all’ordine del giorno la discussione sui cori insultanti che i tifosi intonano negli stadi. Sulla loro genesi. Sulla necessità di reprimere il fenomeno. E con quali sanzioni. Le posizioni in campo sono le più distanti. Da quella di chi li ritiene espressioni di semplice goliardia. E quindi da non punire. A quella di chi li considera inequivocabile sintomo di razzismo. E quindi da soffocare. Basterebbe la esistenza di una simile gamma di posizioni a descrivere la complessità del fenomeno.
Siamo veramente di fronte a manifestazioni di razzismo? Non so dirlo. La storia, del novecento in particolare, insegna a non abusare di una espressione evocativa di terribili tragedie planetarie. Non so se Vesuvio pensaci tu è manifestazione di razzismo e Giulietta era nà zoccola e Romeo nù curnuto semplice raffinata ironia. Intanto l’ululato buhhh buhhh, all’indirizzo di giocatori di colore, lo ho sentito anche sugli spalti del San Paolo. In una città, quindi, che è quanto più distante possa esserci dal razzismo per storia e cultura. In una città inclusiva da sempre.
Il punto è che la diffusione del fenomeno a mio avviso comunque non va sottovaluta.
Perché rappresenta una deriva inquietante. E innanzitutto in quanto traccia una sottile linea d’ombra al di là della quale c’è la violenza fisica. Quando non la guerriglia. Francamente io non so darne una lettura precisa. E’ mestiere dei sociologi. Quello che so per certo è che qualunque persona sana di mente non può che restare disgustata da ciò che si ascolta in qualunque stadio d’Italia. Al nord come al sud come al centro del paese. Disgusto di natura etica, estetica ed intellettuale. Etica perché è moralmente inaccettabile l’uso dell’insulto come strumento di confronto. Estetica perché quei cori sono quanto di più brutto e volgare si possa ascoltare. Intellettuale perché segna la vittoria della becera idiozia e dell’ignoranza sull’intelligenza e sulla cultura.
Viene spontanea una domanda. Questi comportamenti sono intrinsecamente legati al fenomeno calcio? Quanto incidono nell’imbarbarimento i toni adoperati da dirigenti, calciatori e giornalisti? Spesso portati ad esasperare l’atmosfera intorno alle partite. E che dire dei seguitissimi talk show, quasi sempre veri e propri ring per urlate risse verbali? Io non credo che tutto ciò possa spiegare da solo i comportamenti di cui discutiamo. Il fenomeno nasce al di fuori del mondo del calcio e nel mondo del calcio scarica alcuni dei suoi effetti. I cori sono una prima forma di violenza. L’anticamera della violenza fisica. E la violenza ha bisogno di simboli. Oltre che di un palcoscenico per mettere in scena il war-game. Da questo punto di vista lo stadio è un luogo ideale. Il nemico-simbolo è lì a portata di mano. Ed è il tifoso della squadra avversaria.
Nel mondo della comunicazione globale nulla ha senso se non è comunicato. In particolare la violenza. Le immagini degli stadi fanno il giro del mondo. Entrano in tutte le case. Perciò tutto un variopinto mondo di emarginati sceglie gli stadi per dare libero sfogo alla sua irrefrenabile esigenza di violenza. Fenomeni analoghi si verificano a volte anche nel mondo del web. Il calcio è un frammento della societá, nel bene e nel male.
Servono le misure repressive adottate? Cioè la chiusura di settori dello stadio in forza del solito principio della responsabilità obiettiva? Francamente trovo tali provvedimenti di scarsa incisività. Anche perché fondati sul principio iniquo per cui sono puniti anche la società e le decine di migliaia di tifosi civili ed innocenti.
Sotto questo aspetto credo sia molto positiva la decisione di quelle reti televisive nazionali di togliere l’audio ai cori. Ed il video agli striscioni che nulla hanno da invidiare ai cori. Si, oscurare e tacere va bene. E’ un primo passo. Ma la questione non finisce qui.
Se riuscissimo a negare ogni briciolo di visibilità a queste orde belluine forse riusciremmo a spegnerne (o almeno ad affievolirne) gli inqualificabili istinti. Forse…. O forse li spingeremmo soltanto a trovare altri scenari, altri teatri per i loro giochi di guerra. Chi può dirlo?
Guido Trombetti
Il razzismo e gli stadi
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