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Con Lozano sarà il Napoli degli ibridi

È un giocatore del canone Ancelotti che segue la tendenza di basket e pallanuoto: sempre meno giocatori specializzati. Il calcio apparterrà sempre di più a chi sarà capace di forzare i modelli

Con Lozano sarà il Napoli degli ibridi

Hirving Lozano, come già Eljif Elmas, è un giocatore del Canone Ancelotti. È del tutto coerente con la sua attuale idea di calcio. Un calcio giocato dal maggior numero possibile di ibridi. È questa probabilmente la parola giusta. Quarant’anni fa si sarebbero detti forse giocatori totali. Ancelotti li definisce moderni e vedremo poi perché. Sono qualcosa in più e di diverso rispetto a quel che un tempo chiamavamo jolly. Sono calciatori a più dimensioni. Sono interpreti usciti dalla logica della specializzazione rigida dei ruoli ed entrati nella filosofia della distribuzione alternata delle mansioni.

Elmas

Un anno dopo Fabián Ruiz, Elmas è di quella stessa genìa perché allarga il campo in ampiezza e in profondità. Esce dal pressing, distribuisce, spezza, organizza, contrasta. Quello che fa o non fa, non dipende dall’aderenza ortodossa a un ruolo. Appartiene alla stirpe dei centrocampisti che possono essere registi, incursori, mezze ali e mediani non in uno stesso campionato, non in una stessa partita, ma in una stessa azione. Hanno piedi, visione di gioco, tempi di scelta rapidi e pure il fisico. Sono una cosa alla volta, ma portandosi dentro tutte le altre.

Il prototipo tra i contemporanei è stato Pogba. Sono l’aggiornamento del calcio flessibile di Rijkaard, Gullit, Stromberg. Sono portatori di mescolanza e hanno invaso la scena, ciascuno secondo il proprio livello di qualità: da De Bruyne a Thiago Alcantara, da Matic a Gundogan. Negli anni 90 il Napoli ha avuto un proto-ibrido in Pecchia. Non recitava da centrocampista con la maestosità classica di uno Juliano, aveva i gesti frenetici di un cursore, ma conosceva i tempi per gettarsi in area e allenava i piedi fino a convincere la squadra di poter battere le punizioni. Pure alla Juve convinse Del Piero a cedergliene qualcuna. Ancelotti ha un esponente del genere anche in Zielinski, altro figlio del neo meticciato tattico, giocatore allo stesso tempo da equilibrio e da strappi. Non cuce il gioco, lo squarcia. Non culla le azioni, le scuote.

Lozano

Lozano è la riproposizione offensiva dello stesso principio. Porta questo spirito venti metri più avanti, recitando in ogni posizione tra quelle che Ancelotti prevede sulla linea d’attacco. È un giocatore naturalmente predisposto alle scorribande laterali ma l’ultima cosa che andrà accostata al suo gioco è un’idea di indisciplina. È un guastatore geneticamente modificato in un efficace uomo da gol. È un rasoio che taglia il campo. È perfettamente in linea con l’idea di calcio su cui studia e lavora Ancelotti da qualche anno: vince chi in 90 minuti piazza più scatti, chi ha le gambe per lasciare l’altro sul posto e andarsene, chi crea più superiorità numeriche. Non sempre e per forza danzando con la palla appiccicata al piede alla Insigne o alla Younes. Anzi. Che tutto questo avvenga a metà campo o più avanti cambia poco. L’abbandono della religione del possesso palla.

Dove sta andando il calcio

La storia del calcio è piena di giocatori che hanno cambiato ruolo. Alcune volte stravolgendolo. In Germania Olaf Thon partì trequartista e divenne libero. Non è di questo che si parla, ma di come siano cambiati i ruoli, polverizzandosi e imponendo una nuova interpretazione. Il vecchio numero 7 – l’ala destra – nel Napoli di oggi è uno spagnolo che non dribbla come Claudio Sala e Bruno Conti, ma taglia l’area e calcia in porta al volo, copre fin sulla linea dei terzini e sa giocare da mezzala come se non avesse fatto altro nella vita. Callejón è un trans-campista per la forza con cui attraversa i confini dei vecchi ruoli mutando da una condizione all’altra. Parliamo di un calcio nel quale i portieri giocano sempre più coi piedi e i difensori centrali toccano cumuli di palloni che nell’età classica erano riservati in esclusiva ai registi.

Fra i 10 calciatori con più passaggi nella scorsa serie A quattro si sarebbero detti un tempo stopper: Koulibaly (secondo dietro Brozovic), Skriniar, Andersen e Tonelli. Appena 8 anni fa tra i primi dieci c’era il solo Thiago Silva (sesto). Dimentichiamo Claudio Gentile. Fra i 10 che hanno commesso più falli nell’ultimo campionato italiano non c’è nemmeno un difensore, e quattro sono centravanti (Pavoletti, Inglese, Ciano e Belotti). La battaglia del pressing si è spostata sempre più avanti. I terzini sono cambiati più di tutti. Erano addestrati a correre e crossare. Sono diventati prima dei veri centrocampisti esterni, poi nemmeno più tanto esterni, chiamati come sono a entrare dentro il campo e diventare dei costruttori di gioco alternativi. Se il primo calciatore a costare più di 100 milioni è stato un ex terzino dal dna ritoccato (Gareth Bale), allora tutto torna.

Il calcio apparterrà sempre di più ai giocatori capaci di forzare i modelli, i Lahm, andando oltre gli schemi noti, portandosi dentro quel territorio in cui il loro punto di forza può essere il loro limite. Il rischio è sembrare ovunque fuori ruolo, il vantaggio è non esserlo mai. Quale sia il ruolo naturale di un Florenzi o di un Sergi Roberto, adesso si farebbe fatica a stabilirlo.

La scia di basket e pallanuoto

Ma se un calciatore totale più o meno già esisteva con questa definizione negli anni 70, come può allora dirsi oggi moderno?
È moderno, un calciatore così, se allarghiamo lo sguardo verso altri sport. È moderno perché il calcio sta uscendo dai blocchi della specializzazione seguendo una tendenza già in atto per esempio nel basket e nella pallanuoto.

Immaginate che Ibrahimovic sia centravanti quando la sua squadra attacca e difensore centrale quando la palla ce l’hanno gli altri. Un giocatore così nell’acqua esiste. La pallanuoto ha inventato qualche anno fa l’anomalia di Michäel Bodegas, uno dei campioni del mondo con l’Italia: centravanti e stopper. Poiché è uno sport di situazioni che si ripropongono, poterle sparigliare riduce la capacità altrui di controllo. È caduta nel tempo l’indispensabilità del mancino, il giocatore che in attacco si piazzava all’estrema destra in modo da accentrarsi con la mano migliore al tiro in porta. Se è un semplice specialista, non serve più. Il Recco senza un mancino ha vinto lo scudetto tre anni fa. L’Italia andò ai Mondiali 2017 senza portarne uno. Grecia e Montenegro ne hanno fatto spesso a meno. In uno sport dove il tempo in attacco è contingentato, e dunque esiste la certezza che a un determinato numero di situazioni offensive corrisponderà un numero simile di azioni difensive, l’universalità è un’esigenza. Il montenegrino Ivovic costruisce, tira e gioca ai due metri. Il cambio delle regole consente da quest’anno ai portieri di passare la metà campo e giocare la palla.

Il basket da qualche anno cerca giocatori che sappiano muoversi dentro e fuori l’area, dei lunghi che giochino sul perimetro, oppure uomini potenti da usare in regia. Un lungo sul perimetro vede meglio le linee dei passaggi, ma un piccolo che lo affronta lo pianta poi sul posto. La ricerca dei mismatch è diventata estrema e si ottiene con giocatori ibridi. Tutti i grandi diventano nel basket grandissimi quando tendono all’universalità. Magic Johnson è stato il prototipo del play da due metri. LeBron James ne è stato l’evoluzione riscrivendo i canoni del basket, abbattendo i vincoli di ruolo, portando i giocatori di peso a esercitare il loro straripante atletismo anche lontano dal canestro. È il caso del greco Giannis Antetokounmpo, 2 metri e 13, uno che stoppa e porta palla. È il caso dell’australiano Ben Simmons, altro regista con la struttura fisica del lungo, capace di difendere in cinque posizioni. Sono pure loro trans-campisti, in grado oggi di coprire mansioni che questo sport aveva dovuto spalmare finora fra il metro e 60 di Muggsy Bogues e i 2 metri e 31 di Manute Bol.

L’eccezione della pallavolo

Sfugge a questa correzione di rotta la pallavolo, per paradosso lo sport che prevedeva un ruolo detto universale. Qualche decennio fa a Giani capitava di giocare in Nazionale in un ruolo diverso da quello che occupava nel suo club. Molti continuano a cambiare ruolo: a Zaytsev è successo quattro volte. In realtà la pallavolo ha una sua prima diversità nella sostanziale staticità del posto che si occupa in campo durante un’azione, mentre il principio della rotazione – che spingeva a saper fare tutto – è stato annacquato con l’introduzione nel 1997 del libero. Il libero è un giocatore che non può attaccare o murare. È uno specialista della ricezione. La sua figura è nata per volere dell’allora presidente della federazione internazionale, Acosta, convinto di allargare così la platea del reclutamento a ragazzi con meno centimetri. Zorzi ritiene che si sia ottenuto l’effetto opposto perché la specializzazione del libero ha permesso la specializzazione dei centrali, che ora non ricevono più. Quando per rotazione finiscono in seconda linea, i centrali vengono sostituiti. Perciò ora attaccano o murano. Se un centrale durante la settimana si allena in ricezione, perde tempo. Il libero è diventato di fatto una “quota bassi” e ha favorito l’arrivo di centrali sempre più alti e grossi perché in seconda linea non devono far più nulla.

Il laboratorio Ancelotti

A questo punto sarà interessante verificare quanti Napoli moderni, diversi – nell’impostazione, nell’atteggiamento e nell’esecuzione – sapranno riprodurre in campo questa visione e questa filosofia del calcio ibrido. Se fosse basket, diremmo che la capacità del Napoli di vincere le sue partite dipenderà dal numero di mismatch che saprà portare dalla propria parte. Trattandosi di calcio, la sfida di Ancelotti sembra chiara: mandare gli avversari in sofferenza per sterzate, strappi e cambi di ritmo; portarli a giocare fondamentali tecnici fuori dalla tradizione e fuori dalla zona naturale del campo. Trattandosi di calcio, la buona o cattiva riuscita sarà misurata solo dai gol fatti e subiti. Per fortuna, come sempre.

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