Le partite si perdono e si vincono, si sa, addirittura – puntualizziamo per lo spettatore che ogni tanto potrebbe incorrere nella distrazione – molte volte le partite si pareggiano
Le partite si perdono e si vincono, si sa, addirittura – puntualizziamo per lo spettatore che pur essendo attento ogni tanto potrebbe incorrere nella distrazione – molte volte le partite si pareggiano. Si pareggiano a reti bianche, a reti colorate – ipotizziamo un 3 a 3 come un risultato a reti colorate –, a reti così così. Ecco che per un pareggio così così potremmo intendere un 1 a 1, pareggio per il quale, in ogni caso, non adotteremmo l’aggettivo scialbo. Anche perché scialbo fa un brutto suono, non è piacevole né da scrivere né da pronunciare. Pareggio pallido, starebbe bene. Un tenue pareggio, che ve ne pare? Un pareggio accennato, nei toni, non certo nel risultato. In quanto il risultato sarebbe sempre e soltanto, da qualunque lato lo si guardi, quello del pareggio. Un punto a testa, abbracci alla fine, dispiaceri o esultanza (questo mescolato, a seconda dei momenti della stagione e della squadra che pareggia), ringraziamenti o scuse al pubblico, che ci ha sostenuti, che non abbiamo ripagato, e così via.
Il pareggio non è una cosa facile, definisce l’equilibrio laddove la stabilità non esiste, la lucidità non interviene, la ragionevolezza non si siede al tavolo del commento, l’acume latita, il freddo distacco s’allontana, l’opinione è – purtroppo – accorata, lo sbaglio è sempre visto in maniera più grave e lacerante di quello che è: un errore. Il pareggio che vive nel regno della fortuna sfacciata e in quello della fortuna (e quindi della sfortuna) che non esiste. Dunque un palo è sfortuna per chi ha calciato, fortuna per il portiere ma contemporaneamente è una svista per chi calcia, un’imprecisione, un errore di valutazione seppur di un millimetro; di conseguenza il portiere ha valutato correttamente la palla sul palo, che se fosse stata nello specchio lui (si dice/si dirà) ci sarebbe arrivato. Il pareggio nel mondo reale/ideale non dovrebbe esistere, invece esiste ed è la cosa che somiglia di più alla vita. Pareggiamo, a reti bianche, colorate, così così, dalla mattina alla sera, dal primo caffè al dopocena. Lo sappiamo, la nostra fatica è capire se i pareggi sono più compromessi o rinunce, se siano le due cose insieme, se ci salvino o se ci allontanino dall’obiettivo (a noi piace scriverle questa parola ancora con una sola b, non amiamo gli sprechi), ammesso che la vita ne abbia uno, o più di uno.
Eppure il pareggio è – principalmente ma anche secondariamente – una sconfitta mancata, oppure (vedo già lì tutti voi che volete ricordarmelo, ma io me lo ricordo) una vittoria mancata. Esaminiamo per primo il pareggio che è una sconfitta mancata, cioè una non vittoria, cioè il famoso punto guadagnato, magari addirittura in trasferta. Mettiamo il caso che la squadra di casa (prendiamo perciò in esame l’ipotesi del livello di difficoltà elevato) stia giocando in trasferta, ecco che dopo pochi minuti un attaccante della squadra di casa – un attaccante che è noto più per la prestanza fisica che per la facilità di calcio, un attaccante bravo nella protezione del pallone, per dirne una – decide di calciare una punizione dal limite, questione non in discussione, in quanto è lui l’unico sulla palla, mani sui fianchi (ma anche mani lungo il corpo), l’attaccante prende la rincorsa, ipotizziamo che sia mancino, si avvicina, dopo il fischio dell’arbitro, e calcia, la palla con effetto a rientrare (così come ci hanno insegnato a dire) supera la barriera, si abbassa verso la porta (a portiere irrimediabilmente battuto) e colpisca la traversa. Fortuna per uno (o imprecisione seppur di un niente dell’altro); sfortuna per l’altro (ma anche giusta valutazione del portiere: fosse stata nello specchio l’avrei presa) (si dice specchio della porta ma cosa e chi riflette? L’attaccante, il portiere, il tifoso? Specchio della porta delle mie brame lasciati perforare dal mio attaccante preferito, trattieni il portiere, avvelena la bella, risolvi la fiaba a mio vantaggio). La palla non colpisce la traversa, si abbassa e entra, la squadra in trasferta è costretta a inseguire, attacca sempre più intensamente, ma sempre con minore efficacia, ci sono parate, falli, decisioni dubbie, tiri sul palo, tiri fuori, dribbling di troppo, stanchezza che affiora, finché un calcio d’angolo all’ultimo minuto, ed ecco il terzino che salta più in alto di tutti, che insacca, che vince lo specchio, che si riflette, che segna. Ecco, questa sarebbe una sconfitta mancata, perciò gioia per chi pareggia, delusione per chi credeva d’aver vinto.
Prendiamo ora in esame la seconda ipotesi, che è seconda solo perché abbiamo già detto dell’altra, perciò questa è l’ipotesi in cui la squadra che amiamo è soggetta alla vittoria mancata. Ed ecco che l’attaccante nostro, l’attaccante a cui affidiamo speranze che non potrà realizzare, soccorrere, esaudire, perché nella sua natura di attaccante non può far altro che attaccare, fare un tiro, indirizzarlo, sperare che entri, quando entra è un desiderio oltre lo specchio, ma riguarda quell’istante, quel momento e poco altro, non affidiamo le nostre speranze all’attaccante, ma stiamo ad osservarlo, incitiamolo pure, guardiamolo quando intorno al quarto d’ora, dal limite dell’area, di sinistro (si tratta di un attaccante mancino) calci a rete, il tiro è preciso e angolato, seppur non angolatissimo, ma a noi (che abbiamo riposto sogni e troppe speranze in quel tiro) basta che sia angolato il giusto, in modo che il portiere non ci arrivi, e non ci arriverà. Ecco la nostra squadra è in vantaggio, immaginiamo la partita in discesa, ma non lo sarà, il campo è dritto tanto per cominciare, la squadra di casa non ha alcuna intenzione di perdere e si butta in avanti con determinazione, ecco un inserimento da dietro, un bell’inserimento, ecco una distrazione dei nostri difensori (sono nostri finché appartengono alla nostra squadra, non ci sottraiamo né alla deroga, né al possesso), ecco il pareggio, rapido, quasi immediato, nulla di fatto, si ricomincia, c’è tutto il tempo. Il tempo, però, non esiste, e su un campo da calcio non è mai sufficiente. Attacchiamo, o chi per noi, ecco una bella azione, ecco un palo, ecco una respinta, ecco un’altra parata, ecco nel frattempo una parata del portiere nostro, come a voler sottolineare che la squadra di casa non molla in determinazione, la sua arma, laddove difetta in tecnica. Attacchiamo ma non in tempo, non abbastanza, ecco che finisce, con la gioia ribaltata, pareggio da punto guadagnato, si dirà, per la squadra di casa; pareggio da vittoria mancata, si dirà, si dice, si riflette, per la squadra in trasferta. Due punti meno, tentativo di avvicinarsi alle squadre che ci precedono in classifica fallito.
La parola fallimento ci dice che non si tratta di fortuna e sfortuna, ci dice anche che pur avendo un brutto suono è applicabile al momento, a un episodio, a una partita e a poco altro, per il resto è troppo presto e anche se fosse troppo tardi non lo scopriremmo adesso, ma a suo tempo quando sarebbe davvero troppo tardi (se pensiamo alla stagione) o di nuovo troppo presto (se pensiamo a un triennio), o troppo a metà che è il luogo in cui più a lungo sostiamo, dove le cose non si realizzano, i portieri avversari parano, gli attaccanti della nostra squadra centrano il palo.